Il realismo magico di Buzzati
Con questo articolo vorrei dare uno sguardo ampio all'opera di Buzzati, tentando di dare un quadro del modo con cui lui si inserisce nella recente storia della
letteratura del nostro paese.
Buzzati scrittore diede molti grattacapi ai critici che vollero analizzare le sue opere.
Infatti egli pubblicò i suoi racconti fantastici, le sue allegorie e le sue fiabe in un periodo in cui in Italia l'inthellighenzia era in piena evoluzione.
Dopo un breve periodo di malinteso "ritorno alla classicità" esplicitato prevalentemente dalla "ronda", infatti, si incominciarono a vedere sbocciare i germogli da cui poi si sarebbero evoluti i rami più validi della
letteratura italiana di questi ultimi anni.
Il perno attorno al quale ruotava tutta questa novità era la rivista "Solaria", a cui collaborarono critici come il Debenedetti e il Solmi, in cui si incominciava a parlare di ermetismo, su cui si pubblicavano autori come Svevo, Gadda, Vittorini, Montale.
Su di essi e su tutto l'ambiente culturale italiano di quei tempi gravavano già le traduzioni di gente come Kafka, Joyce, Mansfield, Proust.
Abbiamo quindi due filoni principali, uno della così detta "narrazione della memoria", evidentemente influenzato da Proust, e un altro neo-realista (1).
E Buzzati?
Egli non era nulla di tutto ciò, ma tutt'altro.
La critica, fino ad ora, ha sempre cercato, come d'uso, di individuare influenze e richiami per collocare la sua opera in un ambito ben preciso, e il punto di partenza più diffuso e più sfruttato è stato un confronto/identificazione con Kafka.
Ma il discorso, come vedremo, non regge.
Dino Buzzati fu dunque uno scrittore molto isolato, al di fuori di ogni corrente letteraria della sua epoca.
Egli infatti rifiutò sia il romanzo della memoria alla Proust sia il romanzo neorealista, e si pose su di un livello decisamente esterno, anomalo, ma che è facile
fraintendere, applicandogli un'etichetta troppo stretta.
Vediamo quindi ora di chiarire in che cosa consista il "realismo magico" di cui al titolo.
Le teorizzazioni del realismo immaginario stanno prendendo sempre più consistentemente piede tra la critica e gli intellettuali contemporanei, e nello stesso tempo, abbiamo un fenomeno ben preciso di ritorno al fantastico
sia in letteratura che nel cinema, il quale riscopre non più solo un settore etichettato con questa denominazione, ma che stà sconfinando a mano a mano nell'arte, diciamo così, ufficiale.
L'abitudine alla schematica logica scientifica, la fiducia nell'irreversibilità del progresso e la convinzione dell'ineluttabilità dei processi sociali ed economici previsti hanno fatto sì che nel nostro secolo il termine
"fantasia" venisse in larga misura assimilato al suo derivato peggiorativo "fantasticheria"; con quest'ultimo si intende non uno sforzo immaginativo, creativo, ma piuttosto un vagheggiamento su cose concepite come irreali e impossibili, volto a compensare le frustrazioni di una realtà accettata.
Di qui deriva la valenza negativa attribuita alla fantasia, la connotazione di irrazionalità e inverosimiglianza attribuita alle sue creazioni, strumenti
privilegiati di fughe alienanti.
In realtà "fantasia" coincide con "immaginazione" ed esprime la facoltà umana di connettere e modellare immagini secondo una visione interiore dei valori: le sue creature, reali per il solo fatto di essere pensate, non
necessariamente appartengono alla sfera fisica e della razionalità dominante, ma certo traggono spunto anche da essa, magari per rielaborarla secondo una diversa scala di valori e una diversa conseguenzialità logica.
La fantasia è quindi la base prima di ogni elaborazione artistica e riproduttiva, e il prodotto fantastico si definisce non per la sua distanza dal reale e razionale, ma per l'elaborazione che essa offre.
I greci, che in quanto a razionalità non scherzavano, si riferivano allo spettro e all'immagine con lo stesso termine, "fantasma", che oggi è il più comune simbolo di tutto ciò che stà oltre la barriera del tangibile (non ci
sono infatti solo gli spiriti dei morti che ritornano, ma anche fantasmi della mente, della colpa, della memoria).
Stabilita l'essenza comunque immaginaria dell'arte, la definizione e delimitazione della "letteratura fantastica" diviene un'operazione a priori equivoca e parziale (2).
Tornando più in specifico, ora, a Buzzati, chiediamoci un attimo quale era l'ambiente in cui viveva, e in quali condizioni. Egli visse appieno il periodo della crisi
del mondo occidentale, crisi totale, che sentì poi ancora più direttamente e duramente vivendo nella metropoli lombarda e facendo il giornalista.
Questa crisi risulta poi ancora più grave in quanto risulta "crisi cosciente", sfaldamento progressivo del reale quotidiano.
Infatti: "uno dei dati storici più innegabili che sono emersi con la fine della seconda guerra mondiale è che lo sviluppo tecnologico ci ha allontanati sempre più maggiormente dal contatto con la realtà, portandoci a vivere in un universo che ha, in effetti, molti dei caratteri del fantastico puro.
Il frammentarsi e lo specificarsi della scienza umana; lo sviluppo abnorme, invadente, dei mass media che ci offrono verità prefabbricate, tra loro inconciliabili; il fatto stesso di vivere fra oggetti dal funzionamento
misterioso (automobili, televisori, registratori, cineprese, ecc.) di cui pochissimi di noi conoscono i segreti: tutto questo ci immerge in una dimensione magica, e a poco serve dire che la magia è, in effetti, scienza.
Siamo prigionieri di questa grande gabbia che ci stringe da ogni lato costruita non più a misura d'uomo ma in base alle esigenze di un "progresso" che è sostanzialmente determinato dagli interessi del capitalismo; e nella gabbia ci agitiamo come povere marionette impossibilitati a rintracciare i fili che comandano la nostra vita.
Di qui il dramma del moltiplicarsi della realtà, l'impossibilità di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, e la "crisi d'identità" che il mondo
occidentale sta vivendo ormai da tanti anni." (3).
Di fronte a ciò non può che esserci il fenomeno del confondersi della realtà, del "dilatarsi dell'immaginario nell'epoca dei modelli.
Si lascia da parte sia la certezza di un ordine sottostante o sovrastante al nostro reale, al nostro quotidiano, in attesa di risvegliarsi e distruggerci, o
dominato da un Dio benevolo, sia il mistero alla Schopenhauer, per arrivare invece ad una nuova problematica: è "l'altro", il totalmente arbitrario, che abita tra noi e invade il nostro quotidiano.
Non è il "non sence" di Lewis Carroll, strumento per arrivare ad un nocciolo di verità dissimulato sotto le cose; è la consapevolezza che realtà e irrealtà sono ugualmente e assolutamente prive di senso." (4).
Come dice Jean Baudrillard (5): "...i modelli non costituiscono più una trascendenza o una proiezione, non costituiscono più un immaginario in rapporto al reale;
sono essi stessi anticipazioni del reale, e non lasciano perciò alcuno spazio ad alcun tipo di trascendenza immaginaria.
Il campo che si apre è quello della simulazione nel senso cibernetico, cioè quello della manipolazione in tutte le direzioni di questi modelli (scenari, messa in opera di situazioni simulate, ecc.); ma allora non si può più distinguere queste operazioni dalla gestione e dalla stessa
operazione del reale; non c'è più finzione."
Concludendo: nella società attuale assistiamo allo sfaldarsi del reale dovuto, principalmente, appunto, al fatto che ci si lascia sempre più vivere dalle ombre che ci vengono offerte dai mass-media.
Questi ci propongono appunto schemi e modelli definiti, stereotipi che si inculcano nei nostri cervelli, sclerotizzandoli, creando quindi una realtà sociale che va
sempre più divergendo da quella che è la realtà oggettiva umana. Questa
condizione Buzzati l'ha vissuta giorno dopo giorno, e come giustamente dice Eugenio Montale in un suo articolo del 1972, il suo mestiere di giornalista lo metteva giornalmente dinanzi ad una realtà, quella della Milano caotica e assurda, che sembrava trasformarsi ad ogni istante nelle sue mani in "qualcos'altro".
Altra considerazione estremamente interessante, che condivido appieno, è che per Buzzati il mistero è immanente, intessuto nelle file stesse del reale, in mezzo
a noi, e non nella morte, che per lui "delimita il dominio del mistero".
Quale poteva essere il compito di uno scrittore sensibile e attento come lui in una simile situazione di consapevolezza? Come dice ancora Montale, l'effettiva
funzione della sua opera stava nell'"indicare i limiti del realismo, inteso come categoria assoluta."
E qui si pone un problema enorme, cioè quello di individuare quale fosse la visione della realtà di Buzzati, e anche qui partirei con questa affermazione di Montale che, direi, risolve definitivamente anche il problema Buzzati/Kafka, questione che non stiamo qui ora ad approfondire: "Buzzati non respingeva nulla della vita in quanto essa è apportatrice e creatrice di oggetti, di
"cose". E gli oggetti erano per lui uno sbarramento, un ostacolo, una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi. Lo ha poi veramente creduto? Kafka no, di certo. Ecco perchè è vano ogni confronto."
E quale fenomeno caratterizza la nostra epoca meglio dell'emergere dell'Io e dell'Es, del risorgere dei miti, delle esplosioni di irrazionalità collettiva?
Buzzati ha espresso tutto ciò con i suoi mostri assurdi, da fantascienza, che compaiono nei suoi racconti, con le ombre ed i fantasmi che seguono l'uomo ad ogni istante, con il suo simbolismo fatto di montagne grandiose ed incombenti, i suoi boschi viventi, che si inseriscono di straforo in una narrazione che sembra realistica, sconvolgendola, sconvolgendo la sua falsa quiete.
E qui giungiamo al punto centrale di tutta la poetica buzzantiana: si rende conto, lui, borghese medio, della complessità magica effettiva che lo circonda, che
circonda il suo mondo benpensante, stabile ed artificiale, dell'attrazione irresistibile che esercita su di lui e della sua incapacità di accettarla e viverla.
Per quanto riguarda il tema macroscopico dello scorrere inarrestabile ed impetuoso del tempo, direi che ciò è proprio la misura dell'angoscia dell'uomo perchè il
tempo scorre via senza che gli sia possibile fermarsi, mentre l'uomo intravede ed intuisce la grandezza e l'enigmaticità del reale, la misura della sua incapacità di vivere come vorrebbe, impastoiato all'interno di una realtà fasulla e direi assuefacente, dalla quale sembra non aver più nè la forza nè la possibilità di liberarsi.
In ultima analisi, secondo me per Buzzati la realtà artificiale è divenuta talmente pregnante che per l'uomo non vi è più alcuna salvezza se non nel rimanere
eternamente bambini.
Ma forse non si tratta di "soluzioni" al dilemma umano, come si è soliti verificare nei grandi della letteratura, ma una constatazione dello stato dell'uomo, senza nè una spiegazione nè una soluzione.
NOTE:
(1) "Invito alla lettura di Buzzati", di Antonia Veronese Arslan, ed. Mursia, '74, pag. 32
(2) "Lo specchio di Galadriel", a cura di Emanuela Martini, materiali per "un corteggiamento discreto" del cinema fantastico, stampato in proprio presso il Centro Stampa ARCI Regionale, Bologna, gennaio '79, pagg. 18-21
(3) "Dove finisce la realtà", di Vittorio Curtoni, "Robot" n. 30, '78, ed. Armenia, '78, pag. 220
(4) "Utopia e fantascienza", di Antonio Caronia, "Un'ambigua utopia" n. 2,'79, pagg.22-24.
(5) "L'implosione del senso nei media e l'implosione del sociale nelle masse", "Aut aut" n. 169, gennaio-febbraio '79; anche in "Simulacri e Sf", "Un'ambigua utopia" n. 1, '80, pag. 26
Originariamente in "Algenib" n. 13, gennaio '92
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