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I livelli del fantastico e la cultura italiana


di Gianfranco de Turris


L'ubriacatura ideologica del Sessantotto è lontana ormai quindici anni, il ritorno di fiamma del Settantasette sei, eppure la cultura italiana non è riuscita ancora a trovare la sua strada. Gli Anni Ottanta sono iniziati con un sovrapporsi di tendenze contrastanti e contradittorie fra loro, certo forse alimentate dai mass media e dalla "industria editoriale", ma che senza dubbio trovano alimento e terreno fertile in un pubblico, soprattutto giovanile, ancora disorientato e incerto sul da farsi.

Come spiegarsi altrimenti il coesistere di "mode" che durano più a lungo della media e si accavallano ad altre opposte come, ad esempio, quella della magia-occulto-parapsicologia e quella della scienza; o ancora la riscoperta del passato archeologico e il vagheggiamento futuribile e della science fiction; o infine lo straordinario e contemporaneo successo delle biografie storiche, aderenti quindi alla realtà, e della narrativa di fantasy, che della realtà è una alternativa?

Di tutte queste tendenze la più interessante è, dal nostro punto di vista, appunto il fantastico, soprattutto quel particolare genere che è stato portato al successo dal Signore degli Anelli di Tolkien, in occasione delle sue tre principali ristampe: 1970 rilegato, 1974 in tre volumi, 1977 in brossura. Fantastico che tanto disappunto ed allarme ha suscitato in alcuni qualificati esponenti della cultura marxista e radical-chic, in specie agli inizi. Per quale motivo? Le ragioni, facendone oggi un bilancio, sono state essenzialmente due: l'accusa di "fuga dalla realtà" e l'accusa di "irrazionalismo". Caduta la prima sotto la logica della classica distinzione avanzata proprio da Tolkien ormai 45 anni fa tra "fuga del disertore" ed "evasione del prigioniero" dal carcere-realtà, restava la seconda, più insidiosa. Ma pure qui, grazie anche ad un intellettuale marxista non conformista come Massimo Cacciari, che si è opposto alla demonizzazione dell'irrazionalismo riconoscendo in esso solo una razionalità di segno diverso, l'impasse alla fine è stato superato.

Per quale motivo dunque il "fantastico" è stato visto, e continua in parte ancora ad esserlo, con sospetto dai marxisti e dai radical-chic? Esso allontanerebbe dai problemi quotidiani e si rifarebbe ad una "visione del mondo" pre-logica, simbolica, mitica. In realtà, sono proprio questi i due motivi che più lo rendono interessante e significativo ai nostri occhi. Chiediamoci intatti: per quali ragioni si legge oggi la fantasy? Una è "negativa": il desiderio di evadere a livello mentale sia da una realtà avvilente, abbruttente, banale e atroce, sia da una narrativa realistica, mimetica (che mima la realtà, che si mimetizza con essa), ormai di nessun interesse. L'altra è "positiva": il desiderio di entrare in un "tempo mitico", per dirla come Mircea Eliade, in cui la vita è diversa da quella attuale, i valori in cui si crede più profondi, i rapporti con gli uomini e la divinità più sinceri, la vita degna di essere vissuta e così via. Insomma, l'esatto contrario di oggi.

In tal modo la narrativa fantastica può essere considerata una trasgressione e quindi una alternativa del reale. È una trasgressione in nome del mito di cui è una estrema propaggine, un'eco lontanissima, una scheggia, secondo quanto ritengono un Eliade e un Guenon (ma non secondo le tesi di una psicologa junghiana come la von Franz). In altri termini, si può affermare che il fantastico in senso migliore è quello che oggi in una società desacralizzata come la nostra potrebbe adempiere al compito e alle funzioni che erano una volta del mito nelle società sacre delle origini.

Questo punto di vista, alla fine, bene o male, è stato accettato anche a sinistra (almeno da una certa parte della sinistra), sicché nel 1980 Gillo Dorfles ha ammesso che esiste "una analogia tra questi testi e gli antichi miti" raggiungendo poi due conclusioni: una positiva ("si può considerare quale segno d'una effettiva sete di fantasia la volontà di sfuggire agli eccessi d'una civiltà tecnocratica (…) Il desiderio di venire a contatto con elementi magici (…) rientra nel deciso recupero di aspetti simbolici e misteriosofici troppo spesso trascurati") ed una ovviamente negativa ("Il recupero o il ritorno a narrazioni leggendarie e fantastiche capaci di sospingere l'uomo verso un tipo di coscienza crepuscolare e nebulosa, è senz'altro indizio d'una tendenza irrazionale, addirittura di carattere regressivo e reazionario").

Nel fantastico coesistono naturalmente vari filoni: da quello che si può definire "totale" e presuppone la creazione di un intero mondo autoconsistente opposto al nostro, una specie di contro-realtà; a quello che si può classificare come "parziale": l'ingresso improvviso dell'ignoto nel quotidiano, come avviene spesso nelle storie dell'orrore.

All'interno di questi filoni che possono essere considerati una divisione orizzontale del fantastico, vi è anche una di visione in senso verticale, a secondo il modo in cui il simbolismo mitico (e/o esoterico) viene utilizzato dai singoli autori, coscienti o meno che essi ne siano. Proposta per la prima volta nel 1979 da Alex Voglino, viene qui rivista e ampliata.

Ad esempio, un autore in cui l'uso d simbolismo esoterico è appena velato da una patina di narrativa ed in cui la trama dei romanzi è utilizzata per esporre teorie iniziatiche e di realizzazione spirituale, è l'austriaco Gustav Meyrink. In opere come Il Golem, La faccia verde, La casa dell'alchimista, per citare quelle reperibili sul mercato, Meyrink si rifà ad antichi miti ebraici (Il Golem) per introdurre un'atmosfera di terrore che si risolve alla fine, come ne 1a faccia verde, nel raggiungimento di uno status spirituale superiore o, come ne La casa dell'alchimista, nel denunciare il potere demoniaco dei moderni mass media.

Esistono poi altri autori anglosassoni che, iniziati a società segrete che effettuavano un lavoro di accrescimento interiore, come la Golden Dawn all'inizio del secolo, ne travasarono consapevolmente gli insegnamenti nella loro narrativa, in genere di tipo horror: ricordiamo Algernon Blackwood con il suo John Silence, capostipite di tutta una serie di "investigatori dell'occulto", il quale utilizza la sua conoscenza esoterica per risolvere una serie di casi misteriosi; o Arthur Machen che trasfuse le sue conoscenze della mitologia celtica in una serie di racconti, tra i quali, tradotti in italiano, I tre impostori e Il gran dio Pan.

Vi sono poi quegli autori che attingono in modo consapevole al patrimonio delle leggende e delle epopee nordiche e, attraverso di esse, nonostante i loro interessi puramente filologici o narrativi, utilizzano nel modo più appropriato il simbolismo. Il risultato è in genere un secondary world in sé compiuto, del tutto dissimile al nostro: esempi classici quelli creati da Tolkien ne Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion; oppure le riscritture delle saghe arturiane d1 Mary Stewart (La grotta di cristallo, Le grotte nelle montagne, L'ultimo incantesimo) o di quelle celtiche di Evangeline Walton (I Mabinogion). Una "realtà alternativa" è anche quella creata da Mervyn Peake con la sua trilogia di Tito, pur se del tutto statica e non collegata a ben specifici miti, quanto piuttosto ad un simbolismo tutto interiore.

Un folto gruppo di autori, in genere americani, fa uso costante di riferimenti mitico-leggendari di cui coglie i simbolismi ad un gradino di consapevolezza più basso degli scrittori sin qui citati. Anche il livello letterario è decisamente inferiore: si tratta, infatti, di scrittori "popolari" che spesso pubblicavano sulle riviste degli Anni Trenta o degli Anni Sessanta, notissimi agli amatori di fantascienza o di quella che oggi si chiama la heroic fantasy.

C'è Abraham Merritt con i suoi romanzi ambientati in civiltà nascoste nelle viscere dei vulcani, o tra le Ande; c'è Poul Anderson con i rifacimenti delle leggende nordiche; c'è Robert E. Howard con l'eroe barbaro Conan vissuto in una inesistente Era Hyboriana; ci sono Andre Norton e C.A. Smith con i loro pianeti sperduti nel cosmo o ai limiti del tempo; c'è Ursula K. Le Guin che ha ideato il magico paese di Earthsea.

Tra la consapevolezza parziale ed una totale incoscienza dell'uso di certi simbolismi si pone la favolistica "moderna": un genere di narrativa fantastica anch'esso in pieno revival. Attraverso storie apparentemente per l'infanzia si sono infatti dire cose assai profonde, risalire a concetti archetipici come quello dell'"altra realtà", dell'"eterno fanciullo", dell'"abisso", del "mondo sognato", degli "animali parlanti" e così via. I tra classici moderni sono stati tutti ristampati di recente: Alice, Il mago di Oz e Peter Pan.

C'è poi un vastissimo settore di narrativa di consumo e avventurosa che si rifà al fantastico mitico in maniera epidermica, rieccheggiando e imitando esempi più illustri, creando a sua volta secondary worlds ma senza eccessivo approfondimento e senza subire il fascino consapevole della simbologia, comunque priva di spunti interessanti valutabili caso per caso. Spesso si tratta di romanzi leggibili e godibi1i, il cui scopo dichiarato è il divertimento e la pura evasione: i più interessanti sono senza dubbio quelli dovuti all'abile e brillante penna di Jack Vance, ma possiamo ricordare anche i nomi come John Jakes e più in basso le disimpegnatissime opere di Lin Carter, quelle autoironiche di De Camp e quelle un po' troppo intellettualistiche di Fritz Leiber.

Infine, metteremmo un ultimo gradino, quello in cui il fantastico è travisato, stravolto, utilizzato in senso opposto alla sua derivazione dal mito. L'esempio tipico è costituito da un autore eccessivamente sopravvalutato, anzi chiaramente sopravvalutato dalla critica di sinistra proprio per la sua "contestazione" al fantastico rettamente inteso ed ai suoi simboli: Michael Moorcock, teorico dell'avanguardia fantascientifica inglese negli Anni Sessanta e poligrafo autore di dozzine di romanzi di heroic fantasy. Al centro di essi è un personaggio unico che assume di volta in volta vari nomi e personalità (la sua più nota personificazione è Elric di Melniboné), ma il cui atteggiamento si potrebbe definire del tutto anti-tradizionale: burattino nelle mani del Caos, non cerca la conoscenza interiore ed esteriore, anzi non sa nemmeno chi egli sia; la sua spada non è il simbolo del suo Io, della sua anima, anzi è al contrario una specie di vampiro che si nutre delle anime degli altri uomini, compresi gli amici del suo padrone. Da tutti i connotati e le caratteristiche traspare un che di infero, di demoniaco e ci sarebbe da allarmarsi se i romanzi di Moorcock non fossero estremamente ripetitivi, monotoni e stilisticamente così sciatti e narrativamente poco avvincenti, tali da interessare in realtà ben pochi lettori.

In conclusione, possiamo dire che i simbolismi della fantasy non riguardano soltanto il semplice divertimento (pur se c'è - o ci dovrebbe essere – anche quello), ma indicano una alternativa cui fare riferimento. Di più: se la narrativa fantastica fosse solamente un puro passatempo o un puro estraneamento totale dalla realtà, senza quella che potrebbe definirsi una "visione del mondo" che la sostiene e che deriva dal mito rettamente inteso, non vi sarebbero motivi per considerarla una alternativa al mondo quotidiano, ma rappresenterebbe semplicemente un contributo alla sua definitiva conservazione.

Il fantastico, nei suoi vari aspetti, è dunque qualcosa che va un po' oltre il suo aspetto puramente "letterario".

Lo aveva già capito, trent'anni fa, primo fra tutti in Italia, Sergio Solmi che, scrivendo su una rivista di "sinistra" (Nuovi Argomenti, novembre-dicembre 1953; ora il testo è in Saggi sul fantastico, Einaudi, 1978), concludeva con queste significative e ancor oggi valide parole un intervento denso e illuminante: "Una science fiction bene intesa, trascendendo il suo morbido carattere di sintomo e di espressione grezza e standardizzata del disagio odierno, potrebbe assolvere sul piano più propriamente 1etterario (ad una funzione): ossia di reintegrare mito e favola al corpo della poesia, e di condurci, al di sopra dei ponti, dei corridoi e delle sentine, che vanno facendosi sempre più afosi e chiusi, degli inferni realistici contemporanei, "a riveder le stelle"".

Fantastico, fantascienza, bene intesi. Così, come noi ci siamo sforzati di dimostrare.






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