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Intervista a William Gibson (McCaffery)


di Larry McCaffery


• Nei tuoi lavori i riferimenti alla musica rock e alla televisione son così frequenti che a volte sembra che la tua scrittura sia influenzata da MTV tanto quanto dalla letteratura.

Che impatto hanno avuto gli altri media invece sulla tua sensibilità?

• Probabilmente un impatto maggiore della narrativa. Il guaio delle domande sulle "influenze" è che di solito sono formulate in modo tale che si è portati a parlare della propria scrittura come se si fosse cresciuti solo in un mondo di libri. Per esempio, io sono stato influenzato da Lou Reed nella stessa misura in cui lo sono stato da qualsiasi scrittore di "narrativa". Come epigrafe per Neuromante avevo intenzione di usare una citazione da una vecchia canzone dei Velvet Underground: "Attento ai mondi dietro te", da Sunday Morning.

• Mi pare che il crollo di ogni tipo di distinzione (tra cultura pop e cultura "seria", tra generi e forme artistiche differenti e così via) abbia avuto un effetto liberatorio sugli scrittori della tua generazione.

• Si, l'idea che tutto ciò che sta là fuori possa diventare acqua per il tuo mulino è stata molto liberatoria. Questo processo di imbastardimento culturale mi sembra il nodo centrale del postmodernismo. Ne è risultata una generazione di persone (tra cui alcuni artisti) che hanno gusti sfrenatamente eclettici: il genere di persone a cui piace la musica punk e Mozart, che di solito alla sera noleggia quei terribili film dell'orrore e di fantascienza al 7-Eleven, ma poi magari ti chiama per andare a vedere la lotta nel fango o le letture pubbliche di poesia. Se sei uno scrittore il trucco è quello di tenere occhi e orecchie ben aperti per farci entrare tutte queste cose, ma anche per riconoscere immediatamente quello che vorrai far emergere nel tuo lavoro, e in che modo possa funzionare davvero in un determinato contesto. So di non avere un senso della scrittura diviso in compartimenti stagni, e non separo mai la letteratura dalle altre arti. Narrativa, televisione, musica, film: tutte forniscono del materiale sotto forma di immagini, frasi e codici che si insinuano nella mia scrittura in maniera deliberata o inconscia.

• Al giorno d'oggi la cultura sta subendo un processo di profonda trasformazione ad opera della tecnologia, e in misura tale che la maggioranza delle persone non incomincia nemmeno lontanamente a immaginare. Ecco perché forse il pubblico americano è così affascinato dall'immaginario e dal vocabolario fantascientifico. Perfino persone che non sanno nemmeno il significato della parola "fantascienza" stanno reagendo a questa tendenza in modo subliminale, nella pubblicità e in cose del genere.

• Si, come in Fuga da New York, che non è mai stato un grande successo, ma che è stato rifatto un miliardo di volte nei video rock. A proposito, io ho visto quel film (che poi ha avuto una qualche influenza su Neuromante) quando avevo cominciato a scrivere La notte che bruciammo Chrome. Mi aveva incuriosito quello scambio di battute in una delle scene d'apertura, quando il direttore dice a Jena Plisski "Sei tu che sei passato attraverso la contraerea a Leningrado, non è vero?" Nel contesto è una frase buttata lì a caso, ma in quel momento il film ha funzionato come la migliore fantascienza, quando un riferimento casuale può sottintendere moltissime cose.

• Quando scrivi, in che misura sei consapevole di sviluppare sistematicamente un'immagine o una metafora? Prendi l'immagine del "pupazzo di carne" (meat puppet) in Neuromante: sembra una metafora perfetta per suggerire il modo in cui la morbida macchina del nostro corpo è manipolata da forze esterne, anche se credo che tua sia arrivato a quella metafora dopo aver ascoltato il gruppo rock che porta quel nome (i Meat Puppets, NdT).

• No, l'ho letto da qualche parte. Mi piacciono le cose fortuite. Mi capita di trovare una frase estemporanea, come quella in Fuga da New York, e penso "Si, quella funziona". Così la metto nel mio testo e comincio a lavorarci sopra, e vedo come si accorda con le altre cose che ho sottomano. Alla fine comincia a svilupparsi, si dirama in modi imprevedibili. In parte questo processo è consapevole, nel senso che io mi rendo conto di lavorare così, ma il modo in cui queste cose vengono a inserirsi nel testo è intuitivo. Non so quante persone scrivano in maniera diversa. Credo che qualche scrittore lo faccia senza accorgersene, ma per quanto mi riguarda è come se io fossi lì ad aspettare queste cose, per vedere dove portano e in che modo potrebbero mutare.

• Assomiglia a un virus.

• Ma è come un virus. Anche se solo un certo tipo di ospite consente alla cellula di continuare a espandersi in maniera ottimale. Puoi capire come la struttura di un libro come Neuromante ad un certo punto sia diventata complicata. Non nel senso di "ammirevolmente complessa", ma solo perché tutte queste cianfrusaglie avevano cominciato ad agire e a infettarsi reciprocamente.

• Forse possiamo parlare un po' di come si sia sviluppato Neuromante. Con quei due racconti di La notte che bruciammo Chrome (quello dallo stesso titolo e Johnny Mnemonico) hai chiaramente gettato le fondamenta di quello che poi avresti fatto nel romanzo.

• Si, anche se quando ho scritto quei due racconti non ne ero consapevole. In effetti Johnny Mnemonico è stata la terza cosa che ho scritto. L'averla venduta e stato l'unico modo per vedere se era riuscita o meno. In seguito ho scritto La notte che bruciammo Chrome, che ha suscitato più interesse di qualsiasi cosa avessi fatto in precedenza. Comunque sentivo che ci sarebbero voluti ancora altri quattro o cinque anni prima di cominciare a scrivere un romanzo.

Poi Terry Carr mi mise sotto contratto per scrivere un libro che sarebbe stato Neuromante.

Carr stava cercando della gente che gli sembrasse promettente, e io dissi di si quasi senza pensarci: così mi sono trovato impegolato in un progetto per il quale non ero sicuro di essere pronto. Difatti, una volta che ho cominciato a pensarci sopra seriamente la sola idea mi terrorizzava. Ci avevo impiegato qualcosa come tre mesi per scrivere un racconto, e cominciare una cosa del genere, per me era un passo da gigante.

• Ma in particolare, che cos'è che ti ha spinto a cominciare il libro?

• Panico. Un panico cieco e animalesco. E penso che tutta questa disperazione sia visibile molto chiaramente in tutto il libro. Neuromante è alimentato da quella mia terribile paura di perdere l'attenzione del lettore. Ecco perché il libro cerea di essere come una corsa sulle montagne russe, e c'è una trovata in ogni pagina. Una volta convinto che dovevo trovare qualcosa, ho guardato i racconti che avevo scritto fino a quel memento, cercando di capire che cosa avesse funzionato. Avevo Molly (in Johnny Mnemonico) e funzionava; avevo un'ambientazione in La notte che bruciammo Chrome, e mi sembrava che funzionasse. Decisi di mettere insieme queste cose. Durante la stesura del libro ero convinto che, una volta pubblicato, me ne sarei vergognato per sempre. E anche quando ebbi finito non riuscivo ad avere un'idea chiara di quello che avevo fatto (e ancora adesso con ce l'ho, se è per quello). Hai mai visto quegli incredibili dragoni che girano per la folla a Chinatown? Io mi sento sempre come una di quelle persone dentro il dragone. Lì sotto, loro non vedono niente di eccezionale.

Certo, ci sono dei colori vivacissimi, ma sanno anche che è tutto molto fragile. Non vedono che un mucchio di vecchi giornali, cartapesta e listelli di balsa.

• Il mondo evocato in Neuromante mi ha colpito perché assomiglia molto a quello che si trova in Chandler e Hammett: squallido, intensamente vivido, pieno di dettagli coloriti e gerghi esotici che in qualche modo sembrano realistici e allo stesso tempo totalmente artificiali.

• L’ultima volta che ho letto Hammett è stato probabilmente quindici anni fa, ma mi ricordo che mi aveva colpito molto in modo in cui era capace di forzare tutti questi elementi quotidiani fino a renderli diversi; era una specie di naturalismo americano, ma era anche come se avesse girato una specie di manovella per rendere tutto come un'allucinazione, molto intensa. Lo si può vedere all'inizio de Il falcone maltese, quando Hammett descrive tutte le cose dell'ufficio di Spade; è tutto estremamente innaturale, tutto così vivido e strano. Può essere stato Hammett a farmi interessare all'idea di super-specificità, che è quasi sempre molto carente nelle descrizioni di fantascienza. Gli autori di fantascienza hanno la tendenza ad essere generici, e così spesso trovi qualcosa del tipo "Allora si infilò la tuta spaziale". Questa specie di rifiuto dello specificare è quasi una tradizione non scritta nella fantascienza; gli scrittori sanno che, quando il loro personaggio arriva su qualche pianeta inconcepibilmente strano e lontano, possono cavarsela dicendo: "Guardai fuori dalla finestra e vidi l'impianto dell'aria".

Che il lettore non sappia a cosa diavolo assomigli l'impianto, o addirittura che cosa sia, non sembra importante. Può darsi che sia stato Hammett a darmi l'idea di non scrivere in quel modo, anche se scrivevo roba popolare. Comunque non ho mai letto molto Chandler, e non mi è mai piaciuto granchè quello che ho letto perché dai suoi libri ho sempre ricavato come una sensazione puritana e sgradevole. Anche se alla superficie è molto brillante, secondo me il significato implicito non è molto attraente.

•. Lo slang futuristico, Il linguaggio della strada, il gergo tecnico e professionale che è prodotto da questa cultura: ecco l'altra ragione per cui penso che Hammett abbia dei punti di contatto con te riguardo la questione del vocabolario.

• Sono convinto di aver cercato di creare un argot molto verosimile. Ma la maggior parte di ciò che nel dialogo sembra esotico o strano non l'ho inventato io. É più come un collage. Al giorno d'oggi ci sono così tante culture o sottoculture in giro che se uno ha voglia di ascoltare può raccogliere frasi, inflessioni e metafore un po' dappertutto. Molte delle cose che la gente crede cosi futuristiche sia in Neuromante che in Giù nel ciberspazio, probabilmente sono solo lo slang degli spacciatori di droga di Toronto nel 1969, o i modi di dire dei biker. Io prendo in prestito molte cose.

• Alcune delle parole che usi in Neuromante (come "flatlineare" o "programma virus") danno quasi una sensazione di poesia.

• Ma sono poesia "Flatlineare" nello slang degli autisti di ambulanze vuol dire morire. L'ho sentito in un bar, forse vent'anni fa, e mi è rimasto impresso. Piangendo, un autista ubriaco aveva detto: "É flatlineata". Adopero moltissime frasi che sembrano esotiche per tutti tranne che per quelli che le usano. É piuttosto strano, ma non ho utilizzato quasi mai gerghi particolari presi da altri scrittori di fantascienza. "Programma virus" l'ho presa da una ex operatrice di computer del W.A.C. (Woman's Army Corps, Corpo delle ausiliarie dell'Esercito, NdT) che aveva lavorato al Pentagono. Una sera l'ho sentita parlare con una sua amica di certi tizi che entravano ogni giorno per cancellare le schede di tutti i videogiochi che la gente aveva inserito nei propri sistemi. Quelli che lavoravano là si costruivano delle piccole unità che s'infilavano qua e là per evitare i cancellatori ufficiali: cosettine che si nascondevano e poi saltavano fuori dicendo "Fregato!", prima di scomparire nella struttura logica (a sentirmi mentre tento di spiegare la faccenda è subito chiaro che non ho idea di come veramente funzionino i computer; per me è stato un impatto notevole). Comunque ricordo che la ragazza del W.A.C. diceva che la cosa che li preoccupava di più erano i "programmi virus".

Tra i fumi dell'alcool è suonato come un campanello, e le ho chiesto: "A proposito, cos'è un programma virus?", così lei mi ha fatto un riassunto. Ma solo dopo l'uscita del libro ho incontrato persone che sapessero veramente che cosa fosse.

• Quindi tu utilizzi il computer e la scienza più per il loro valore metaforico, per il modo in cui "suonano" i termini, che per una dimestichezza con il modo in cui operano.

• Sto cercando delle immagini che possano fornire una certa atmosfera. Mi sembra che al giorno d'oggi la scienza e la tecnologia siano fonti utili per questo genere di cose. Diciamo che mi interessa di più il linguaggio dei computer che non gli aspetti tecnici, la maniera in cui realmente operano. Fondamentalmente nei miei libri i computer sono semplicemente una metafora della memoria umana. Mi interessano i come e i perché della memoria, i modi in cui essa definisce chi e che cosa siamo, e come essa possa essere facilmente soggetta a revisione.

Quando stavo scrivendo Neuromante è stato meraviglioso riuscire a collegare molti di questi interessi alla metafora computer, ma lì la memoria del computer è molto più simile alla memoria umana di quanto non sia in realtà. Quando ho scritto Neuromante non sapevo che i computer avessero i disc-drive. Fino allo scorso Natale non avevo mai avuto un computer, non potevo permettermelo, Se la gente cominciava a parlarne mi veniva sonno. Poi mi sono comprato un Apple II a una svendita, l'ho portato a casa, l'ho messo su e ogni volta che il disc-drive entrava in funzione cominciava a fare un rumore orribile, come di un tostapane che scoreggia. Quando ho chiamato il negozio e ho chiesto cosa era che faceva quel rumore mi hanno risposto: "Oh, è solo il meccanismo del drive, quell'affarino dentro che gira". Io mi ero aspettato una cosa esotica e cristallina, una tastiera per ciberspazio o roba del genere; e invece dentro c'era questo pezzettino di motore, quasi vittoriano, come in un vecchio giradischi (che oltretutto scricchiolava!). Quel rumore ha tolto un po' di fascino, ha reso tutto un po' meno sexy. Solo la mia ignoranza l'aveva reso romantico.

• Di primo acchito Neuromante colpisce parecchi lettori per tutti i suoi elementi cyberpunk: gerghi esotici, droghe, cyberrealtà, abbigliamento, eccetera. Anche se sotto molti aspetti la trama è decisamente tradizionale: il gangster che è stato messo fuori combattimento, è stato fregato e vuole vendicarsi facendo il colpaccio. Legare questa cyberrealtà a un intreccio con una struttura già consolidata deve essere stata una decisione cosciente.

• Certo, è così. Non stavo affatto esagerando quando prima dicevo che molte delle cose che ho usato in Neuromante sono venute fuori per disperazione. Sapevo di essere inesperto, e quindi avevo bisogno di un intreccio con una struttura tradizionale, che avesse già dimostrato il suo potenziale di solidità narrativa. Volevo usare diversi spunti, ma siccome non avevo un'idea precisa di dove stessi andando a parare, la trama doveva essere qualcosa con cui avessi dimestichezza, una struttura familiare. E poi, dal momento che ho scritto Neuromante sotto la forte influenza di Robert Stone (che è un maestro di un certo tipo di narrativa paranoica) non è poi così sorprendente che sia venuto fuori qualcosa di simile a un film di Howard Hawks.

Ma tutto questo ha anche molto a che fare con il mio bisogno di sentire che stavo agendo all'interno di una specie di rete di sicurezza. Non sono riuscito a pensare a niente di più appropriato di questo mondo sotterraneo da film noir, a cui attaccare tutta quella roba.

• Spesso i primi romanzi di un autore sono anche i più autobiografici. In Neuromante ti sei basato molto su avvenimenti del tuo passato?

• Neuromante non è autobiografico in senso letterale in nessun modo, ma quando stavo tentando di sviluppare questi personaggi naturalmente li ricavavo dal modo in cui percepivo la gente. In parte questa mia percezione derivava dal ricordo della mia adolescenza sballata, in parte anche dal constatare come i ragazzi reagivano a tutta quella merda veramente orribile che c'era intorno a loro, tutta quell'angoscia insensata e quella mancanza d'affetto.

• Il libro ha subito molti cambiamenti significativi, una volta che avevi sistemato quella rete di sicurezza di cui parlavi prima?

• Ho riscritto i primi due terzi del libro una dozzina di volte. Quando sono riuscito a trovare una mia visione del mondo, ho fatto moltissimi cambiamenti stilistici e ho dovuto lavorare molto sulla trama per farla sembrare anche solo vagamente plausibile. Ho dovuto tornarci sopra per aggiustare le coincidenze più zoppicanti. Non ho mai avuto un'idea molto chiara di quello che sarebbe successo alla fine; sapevo solo che doveva essere un finale grandioso.

• Durante la revisione cerchi degli effetti particolari nella tua prosa?

• Di solito le mie revisioni riguardano i passaggi che sono poco scorrevoli. Quando ho cominciato a scrivere ho scoperto che se leggevo qualcosa per il piacere di farlo, man manu che mi immergevo nella lettura all'improvviso mi rendevo conto che si era persa una battuta, che il ritmo era scomparso, insomma la bacchetta del direttore d'orchestra era caduta. É difficile da spiegare, ma so che quando sto rivedendo quello che ho scritto cerco i punti in cui ho perso il ritmo. Di solito è questione di trovare il modo per condensare la mia prosa, così che le parti individuali abbiano un maggior peso specifico, siano più cariche di significato. Quando revisiono, il testo quasi sempre diventa più breve. Mi rendo conto che questo processo di condensazione finisce col distrarre qualche lettore. Ci sono lettori di fantascienza "di genere" che considerano Neuromante e Giù nel ciberspazio troppo densi, letteralmente impossibili da leggere; invece sembra che altri lettori di fantascienza, che altrimenti non avrebbero pazienza per la narrativa "seria", siano entusiasti di quello che sto facendo.

• E Pynchon? Ha avuto un'influenza sul tuo lavoro?

• Pynchon è sempre stato uno dei miei scrittori preferiti, ed ha sempre avuto una grandissima influenza su di me. Sotto molti aspetti considero Pynchon come l'iniziatore di un certo tipo di fantascienza mutante: il cyberpunk, fantascienza che mescola surrealismo ed immagini della cultura pop con informazioni più esoteriche di carattere storico e scientifico. Per me Pynchon è una specie di eroe politico, e ho il sospetto che se tu parlassi con molti dei più recenti scrittori di fantascienza, scopriresti che molti hanno letto Gravity's Rainbow parecchie volte e ne sono stati molto influenzati.

• Qual è stata l'ispirazione per l'idea del ciberspazio?

• I ragazzini delle sale giochi Camminavo per Granville Street, lo Strip di Vancouver. Non avevo mai usato molto i videogiochi, ed ero un po' imbarazzato perché erano tutti molto più giovani di me; quando però mi sono messo ad osservarli ho visto quanto fossero assorti in questi giochi: me ne sono accorto dall'intensità fisica dei loro atteggiamenti. Era come uno di quei sistemi chiusi in un romanzo di Pynchon: era un circuito di feedback, con i fotoni che uscivano dallo schermo verso gli occhi dei ragazzini, i neutroni che circolavano attraverso i corpi e gli elettroni attraverso i computer. E chiaramente loro credevano nello spazio proiettato dai giochi. Sembra che tutti quelli che lavorano con i computer sviluppino una fiducia istintiva nell'esistenza di una specie di spazio reale dietro lo schermo; quando le parole o le immagini spariscono dallo schermo ci si chiede spontaneamente: "Dove se ne sono andate?". Bè, se ne vanno dietro, in un qualche posto che non riusciamo a vedere.

• Da un punto di vista puramente tecnico, di tecnica letteraria, la premessa del ciberspazio deve essere stata una grande scoperta, perché crea un fondamento logico per molti "spazi" narrativi diversi.

• Quando sono arrivato al concetto di ciberspazio, mentre stavo scrivendo La notte che bruciammo Chrome, ne ho subito intravisto le potenzialità evocative. Quando poi mi accinsi a scrivere Neuromante, riconobbi che permetteva molte nuove mosse, perché i personaggi potevano essere risucchiati dentro realtà apparenti: il che significa che tu li puoi piazzare in qualunque tipo di ambiente o sullo sfondo di qualsiasi scenario tu voglia. Ho tentato di attenuare questa caratteristica, perché se l'avessi esagerata avrei posto le premesse per una trama di tipo troppo aperto: quel tipo di libertà può essere pericolosa, perché non devi giustificare quello che sta accadendo secondo la logica dei personaggi o della trama. In Giù nel ciberspazio ho voluto rallentare un po' il ritmo e imparare a lavorare sulla costruzione dei personaggi. Sapevo che per la maggioranza dei lettori Neuromante assomigliava ad una corsa sulle montagne russe: si è molto eccitati ma forse non si capisce bene dove ci si trova o perché si è diretti in un dato posto. Comunque anche in Giù nel ciberspazio ho voluto presentare un personaggio come Virek, che apparentemente vive in un numero illimitato di realtà. Nella sua vita quotidiana lui ha tutte queste esperienze mentali: se vuole può avere tutta la città di Barcellona, e tutta un'altra serie di possibilità. Anche se poi in realtà non è altro che un mucchio di cellule in una vasca messa da qualche parte.

• Philip K. Dick scriveva sempre di persone come Virek, persone che hanno moltissime "realtà opzionali", moltissime riproduzioni diverse e illusioni, tanto che comincia ad essere difficile sapere quale realtà è più reale: quella nelle loro menti o quella che sembra esistere all'esterno. É un concetto importante.

• Certo, ed ecco perché è così grande la tentazione di continuare e insisterci sopra, una volta che si ha un concetto come quello di ciberspazio, che crea un fondamento logico immediato.

Forse in Giù nel ciberspazio ho calcato un po' la mano, ad esempio con la madre di Bobby che è come drogata dai serial TV e vive dentro di essi, ma è stato difficile resistere alla tentazione.

Tutti mi chiedono se Dick abbia avuto influenza su di me, ma prima di cominciare a scrivere non ne avevo letto molto. II mio Dick è stato Pynchon. Ho sempre immaginato un mondo parallelo in cui Pynchon vendeva i suoi primi racconti a Fantasy & SF e diventava un altro Dick.

• Una delle questioni sollevate dalla tua opera è il modo in cui l'informazione (questa "danza dei dati", come la chiami tu) non solo controlla la nostra vita quotidiana, ma rappresenta forse il modo migliore che abbiamo per capire i processi fondamentali che controllano le trasformazioni in atto nell'universo. Mi sembra significativo il fatto che siano principalmente degli scrittori di fantascienza a preoccuparsene.

• L'informazione è la metafora scientifica dominante della nostra epoca, e quindi abbiamo bisogno di confrontarci con essa. Non è che la tecnologia abbia cambiato ogni cosa trasformandola in codici. I Newtoniani non vedevano le cose in termini di scambio di informazione. Il che mi fa venire il sospetto che Freud abbia molto a che fare con i motori a scoppio: entrambe sembrano metafore simili.

• Ripensando agli anni '60 e '70, sostanzialmente la fantascienza "New wave" aveva una posizione pessimistica nei confronti della tecnologia e del progresso. Anche se a volte le tue opere sono state descritte come una esaltazione della tecnologia, io direi invece che ne offrono una visione più ambigua.

• Le mie opinioni nei riguardi delta tecnologia sono completamente ambigue. L'ambiguità mi sembra l'unico modo di rapportarsi a ciò che sta accadendo oggigiorno. Chi non ha più idee ambigue? Non si può essere un luddista, ma allo stesso tempo non si può sposare la tecnocrazia. Quando scrivo sulla tecnologia, scrivo di come essa abbia già influenzato le nostre vite. Non uso l'estrapolazione nel modo in cui mi è stato insegnato, in quanto scrittore di fantascienza. Avrai notato ovviamente che in Neuromante c'è stata una guerra, ma non spiego con esattezza quale ne sia stata la causa o chi l'abbia combattuta. Non ne mai avuto né la voglia né la pazienza di lavorare sopra dettagli del tipo "chi sta facendo qualcosa e a chi", oppure quando esattamente tutto ciò accade, o cosa è successo degli Stati Uniti. Quel genere di letteralità mi è sempre sembrata sciocca, mi toglie il piacere che provo a leggere fantascienza. Il mio scopo non è tanto di fornire delle previsioni specifiche o dei giudizi, quanto piuttosto quello di trovare un contesto narrativo appropriato in cui esaminare le potenzialità multiformi della tecnologia.

• In che misura sei consapevole di operare al di fuori del mainstream della fantascienza americana?

• Gran parte di quello che ho scritto finora è stata una reazione conscia nei confronti di quello che era diventata la fantascienza (specialmente quella americana) quando avevo cominciato a scrivere, alla fine degli anni '70. Leggevo fantascienza molto saltuariamente (rispetto a quando ne leggevo molta, a quindici anni) e quindi la mia posizione è istintiva. Ma negli anni '70 c'erano poche cose che mi piacevano, almeno così mi sembrava. Quasi tutto quello che trovavo mi sembrava troppo facile, e peggio ancora, per niente interessante. Così, quando ho cominciato, direi che ho semplicemente tentato di andare nella direzione opposta a quella della maggior parte delta roba che stavo leggendo, verso la quale avevo una forte repulsione estetica. E in effetti capivo che stavo scrivendo cose talmente al di fuori della produzione corrente che le mie più grandi speranze erano quelle di diventare una specie di oscura figura di culto, un Ballard minore, o qualcosa del genere. Credevo di fare delle cose che non sarebbero piaciute a nessuno, all'infuori di pochi pazzi "artistici", e forse a qualcuno in Inghilterra e in Francia.

• In che modo descriveresti la direzione che ha preso il tuo lavoro?

• Quando mi sono messo a scrivere, c'era qualcosa che mi ha bloccato a lungo: stavo cercando il modo di presentare le cose che mi interessavano veramente. Sapevo che in un testo (e in particolare in un testo fantastico) sono le mosse gratuite, quei dettagli strani, intricati, arbitrari che contribuiscono a dare un senso di stranezza. Allora mi sembrava importante un approccio che mi permettesse delle mosse di questo tipo. Non pensavo che quello che stavo scrivendo si sarebbe man "inserito" o sarebbe stato accettato facilmente: per questo mi interessava più che altro introdurre delle cose che erano importanti per me. Quando Molly passa per la biblioteca dei Tessier-Ashpool vede che possiedono il Grande Vetro di Duchamp.

Ora, quel riferimento a Duchamp non ha un gran senso da un punto di vista simbolico, profondo; in effetti è irrilevante, ma è appunto proprio una di quelle mosse gratuite. Mi sembrava giusto metterlo in quel posto: ecco delle persone molto ricche su una stazione spaziale con questa grande opera d'arte che è lì solo per prendere della polvere. In altre parole: mi piaceva quell'opera e l'ho voluta inserire in qualche modo.

• É precisamente questo genere di "marchi" che creano una struttura e alla fin fine costituiscono la cosiddetta "visione" di uno scrittore. Lo si può vedere in uno come Alfred Bester: i suoi libri mi ricordano molto i tuoi.

• Bester è stato fin da subito un'apparizione folgorante. Quando è uscito Neuromante molti recensori hanno detto che dovevo averlo scritto con una copia de L'uomo disintegrato appoggiata vicino alla macchina da scrivere. A dire la verità era da molto tempo che non leggevo Bester, ma lui era uno di quegli autori di fantascienza che mi erano rimasti impressi, che mi sembravano degni di essere imitati, forse più che altro perché avevo la sensazione che scrivesse per divertimento. E penso di sapere il perché: era un newyorkese che non scriveva fantascienza per vivere, e allora lui si lasciava veramente andare, non gliene fregava di nient'altro che di divertirsi, di fare come gli pareva. Se vuoi capire come deve essere stato fantastico essere vivo e giovane ed aver vissuto a New York negli anni '50, allora leggi la fantascienza di Bester.

• Il che significa che i libri di Bester sono realistici nello stesso modo in cui lo sono molti romanzi cyberpunk: ricreano cosa si prova veramente ad essere vivi in un dato luogo e in un dato momento.

• La mia fantascienza è realistica nel senso che fin dall'inizio ho scritto di cose che vedo intorno a me. Reagisco alle mie impressioni sul mondo. La mia narrativa amplifica e distorce queste impressioni; a volte posso essere anche un po' strabico, posso tentare di confondere un po' le cose, però tento di presentare il modo in cui io effettivamente percepisco il mondo, almeno certi suoi aspetti. Sto seduto all'aeroporto Fort Worth di Dallas, guardo fuori dalla finestra e penso: "Che cos'è questo paesaggio?"; ci sono dei momenti in cui noto qualcosa che mi fa dire immediatamente: "che cazzo sta succedendo qui?". Sai di essere in un posto stranissimo, ma sai anche che questa stranezza fa parte proprio del tuo mondo. Uno degli effetti liberatori che la fantascienza ha avuto su di me quando ero ragazzo è stata proprio la sua capacità di farmi sintonizzare su questi strani dati e di farmi capire che non ero l'unico a percepire il mondo come mostruoso e folle. Nei primi anni '60, quando ero un ragazzo, la fantascienza è stata l'unica fonte di informazione sovversiva che avessi a disposizione.

• Hai detto che in realtà non leggevi molta fantascienza quando hai cominciato a scrivere. Com'è che hai cominciato?

• Per una serie di coincidenze. Ero alla U.B.C. (University of British Columbia, NdT) e mi stavo laureando in letteratura inglese (mi ero diplomato nel '76 o nel ‘77). Là stavo al college, perché all'epoca era più facile che trovare un lavoro. Potevo avere delle borse di studio e non dovevo lavorare davvero molto come ricercatore: ho capito in fretta che sarei riuscito a prendere i voti di cui avevo bisogno per continuare a ricevere la borsa di studio. In quel periodo, per un paio di mesi avevo pensato seriamente alla fantascienza, senza però credere che l'avrei mai scritta: all'epoca pensavo di poter scrivere sulla fantascienza. Poi ho frequentato dei corsi sulla politica estetica del fascismo. Stavamo leggendo un saggio di Orwell, "Raffles and Miss Blandish", e questo professore chiedeva se esistessero o meno dei romanzi fascisti. Mi ricordo di avere pensato: "Merda! Una traccia su questo argomento me l'hanno data tutti quei libri di fantascienza che ho letto: io so io dov'è questa letteratura fascista!" Ho anche pensato di scrivere il master su questo argomento. Dubito che il mio approccio sarebbe stato così rivoluzionario, però mi ha fatto pensare seriamente alla fantascienza, a cosa fosse, quali tradizioni la informassero e quali avesse respinto. Problemi di forma/contenuto.

• Ci sono stati altri corsi di letteratura che possono aver influenzato il tuo concetto di fantascienza?

• Mi ricordo un corso sul naturalismo americano, basato sull'idea che ci fossero diversi tipi di romanzi naturalistici. C'è la solita versione del romanzo naturalistico mimetico, ma c'è anche un tipo di romanzo naturalistico deviante, cose tipo i romanzi di Hammett o L'uomo dal braccio d'oro di Algren. Algren cerca di fare una descrizione realistica di Chicago negli anni '40, ma in realtà fa una descrizione molto più bizzarra di qualunque cosa abbia mai fatto io con Chiba City in Neuromante. É pieno di gente con i denti al neon, personaggi con le facce che cadono a pezzi, roba che sembra uscita da qualche terribile incubo. Poi nella letteratura americana c'è un'altra tradizione al limite del naturalismo, quella in cui l'orrore e la paura giocano un ruolo evidente, al limite della follia, quella che si trova nei libri di Herbert Selby. E collegati forse in qualche modo a queste diramazioni contorte del naturalismo ci sono i libri di William Burroughs, che hanno influenzato la fantascienza sotto ogni punto di vista. Io appartengo alla prima generazione di scrittori americani di fantascienza che ha avuto la fortuna di leggere Burroughs a quattordici o quindici anni. So che l'avere avuto quell’opportunità ha cambiato molto la mia concezione di fantascienza (o di qualunque tipo di letteratura, se è per quello) perché ho assorbito Burroughs nello stesso momento in cui stavo leggendo fantascienza. Quello che lui stava facendo con l'intreccio e il linguaggio, con i motivi fantascientifici di altri scrittori, è stato letteralmente illuminante. Mi sembrava di vederlo, questo pazzo fuorilegge che aveva raccolto la fantascienza e l'aveva usata per dare la caccia alla società, quasi come un vecchio che si fosse messo a minacciare la gente con un apribottiglie arrugginito in mano. Una volta avuta quell'esperienza, non si è più gli stessi.

•. Quali sono adesso gli scrittori che ammiri o ai quali ti senti più legato?

• Sicuramente Bruce Sterling è tra i mei preferiti. Butta fuori un numero di idee per pagina superiore a chiunque altro. Ovviamente Delany ha influenzato il mio lavoro e quello della maggioranza degli scrittori seri di fantascienza della mia generazione. Marc Laidlaw ha scritto un libro che mi è piaciuto veramente, Dad's Nuke ["Una famiglia nucleare", NdC], Sterling, Rucker, Shirley, naturalmente. Ammiro moltissimo il lavoro di Greg Bear, anche se il suo approccio è più orientato verso la fantascienza "hard". Uno che ho scoperto per caso recentemente, e i cui libri sono quasi di fantascienza, e Madison Stuart Bell: "The Washington Square Ensemble" e "Waiting for the End of the World" sono bellissimi.

• Una delle scene di Neuromante con una carica emotiva molto particolare è quella in cui Case tenta di distruggere il nido di vespe. Secondo te cosa rende quell'immagine così evocativa da un punto di vista emotivo?

• Prima di tutto la paura degli insetti! Quella scena nasce da una mia esperienza quando tanto tempo fa ho distrutto un grandissimo nido di vespe. Non sapevo quello che c'era dentro, non sapevo che avessero quel tipo di "imprinting", così quando si è rotto sono rimasto sorpreso e spaventato da tutte quelle vespe che uscivano (forse l'essere stato punto parecchie volte mi e stato d'aiuto). Ho provato qualcosa del genere quando ho visto Alien per la prima volta (e l'effetto è continuato anche quando l'ho rivisto): ho capito subito che c'era un altro spaventato dagli insetti. É un'esperienza che può essere molto dura. A proposito, il lanciafiamme che usa Case l'ho preso dal lavoro del Survival Research Laboratories di San Francisco: sono artisti-meccanici punk che costruiscono cannoni Gattling ad alta velocità e ad aria compressa, e sparano tubi fluorescenti attraverso lastre di compensato. Fanno spettacoli in cui distruggono carcasse di animali con queste armi.

• Sembra che quell'alveare gradualmente assuma su di te significati e associazioni mentali di ogni genere. "Costruisci" consapevolmente metafore come queste, in modo da renderla evocativa in varie direzioni, oppure questo processo è così radicato nel tuo inconscio che non riesci a descriverlo?

• Funziona in tutti e due i modi, ma molte delle cose che faccio sono più intuitive, come se raccontassi delle balle fino a convincere me stesso e chiunque altro che so realmente cosa sto facendo. Se mai mi capitasse di insegnare scrittura creativa, quello che direi è questo: dire balle e la forma mentale adatta se si vuole scrivere qualcosa che funzioni. OK, tu hai questa immagine dell'alveare che in qualche modo hai tirato fuori, e vedi che è un'immagine forte. Ma poi si deve avere la volontà di selezionarla, di elaborarla e di riscriverla, tentando di ricollegare il tutto.

• Certo, questo implica parecchie cose: prima di tutto bisogna avere quel tipo di abilità intuitiva nel riconoscere una metafora evocativa, quando ti capita di trovarla (e mi pare che sia questa la capacità cruciale che distingue gli scrittori ordinari da quelli veramente dotati); poi si deve essere in grado di chiarire quello che potrebbe significare questa metafora, e in fine capire in quali modi usarla.

• Una volta che ho scoperto un'immagine, essenzialmente faccio un uso controllato del collage, che mi serve per cominciare a guardarmi in giro, e per cercare come queste cose potrebbero inserirsi nel resto del libro. Questo è uno degli spunti che prendo dal lavoro di Burroughs e, in misura minore, di Ballard. In effetti non ho mai usato molto il cut-up, solo qualche volta il fold-in quando mi bloccavo o mi annoiavo a morte, per vedere quello che veniva fuori. Ma ho capito quello che stava facendo Burroughs con questi metodi aleatori e perché lo faceva, anche se i risultati non erano sempre così interessanti, Pensavo: "Ok, questo è l'equivalente di un collage, tagliuzzare delle cose e sbatterle da qualche parte. Ma cosa succederebbe a passarci sopra un po' di pistola a spruzzo per ottenere qualcosa di misto?" Così ho cominciato ad usare un po' i metodi di Burroughs, e nello stesso tempo tentavo di togliere i margini per non far vedere i punti di giunzione.

• Questo approccio sembrerebbe fuori luogo in un campo come quello della fantascienza, dove la maggior parte dei lettori cerca delle connessioni razionali o scientifiche per far andare avanti in maniera credibile le fantasie del futuro.

• Come ho detto prima, non mi interessa produrre quel tipo di letteralità che i lettori di solito associano alla fantascienza. Può essere un'ammissione suicida, ma il più delle volte non so di cosa sto parlando quando si arriva alle spiegazioni scientifiche o razionali che si presume puntellino i miei libri. Mi sembra che in parte la mia tecnica consista nell'abilità di convincere la gente che io so veramente di cosa sto parlando. Le mie sono solo bugie convincenti: ma bugie che in qualche modo riescono a comunicare le mie impressioni sulle cose, che io distorco per ottenere certi effetti. Alcuni degli scrittori di fantascienza, che sono anche dei veri scienziati di professione, sanno di cosa stanno parlando: ma per presentare tutto un mondo che non esiste, e per renderlo reale, in qualche modo si deve fingere di essere poliedrici. Ecco cosa significa scrivere bene.

• L'ossessione dominante oggi di essere in grado di riprodurre una serie apparentemente infinita di immagini, dati e informazioni di tutti i tipi, ovviamente è collegata al capitalismo (e alla sua tendenza all'efficienza); ma mi pare che derivi anche dalla nostra paura della morte, dal desiderio di immortalità. I fini della religione e della tecnologia, in altre parole, possono essere più vicini di quanto si pensi.

• Lo so. Ma non è qualcosa che ha origine nella tecnologia moderna. Se si guarda un qualsiasi tempio antico, costruito da persone che imparavano a lavorare la pietra con la tecnologia allora disponibile, si scoprono delle macchine progettate per dare l'immortalità. Le piramidi e i tumuli funerari sono macchine del tempo. E mi sembra che questo tipo di applicazione della tecnologia percorra tutta la cultura umana.

• Sei andato al college solo verso la meta degli anni '70. Cosa facevi negli anni '60?

• Praticamente niente. Sono cresciuto in una piccola città della Virginia. Mio padre era imprenditore, e negli anni '40 fece un mucchio di soldi installando gabinetti per gli Oak Ridge Projects (sembra un dettaglio alla Pynchon, ma è vero). Quando ero bambino avevamo tutte queste insegne ufficiali in giro, per dimostrare quanto fosse stretta la sorveglianza. Nel dopoguerra tirò avanti con il piccolo boom edilizio del sud intorno alla Sun Belt, e morì quando avevo circa otto anni. La mia famiglia aveva viaggiato molto perché lui si doveva spostare per i lavori di costruzione, e mia madre aveva deciso di tornare alla sua città in Virginia dove entrambi erano nati, e dove io sono rimasto fino a sedici o diciassette anni. Per molti versi ho avuto una fanciullezza tipica da lettore di fantascienza: un mucchio di libri, molto studio e poco baseball. Poi sono andato in collegio a Tucson, dove per la prima volta ho incontrato i ragazzi di città, e dove ho visto la prima ondata i hippie che si riversava lì da San Francisco. Erano più vecchi di me, e pensavo che fossero veramente forti. Alla fine sono stato espulso dal collegio (che nel frattempo, mi hanno detto, è diventato un club di tennis) perché avevo fumato dell'erba: credo di essere stato il primo a farmi degli spinelli. Quando me ne sono tornato in Virginia mia madre era morta e scoprii che ai miei parenti il mio stile di vita non andava molto a genio. Per un po' vagabondai in giro, e più o meno convinsi la commissione di leva a non prendermi (avrebbero detto: ok, ti manderemo in Vietnam e faremo di te un uomo). Comunque non mi hanno molestato, e così nel 1968 me ne sono andato a Toronto senza nemmeno sapere che il Canada sarebbe stato un paese così diverso.

• C'era un ambiente underground, alternativo a Toronto? Mi chiedo se può aver contribuito all'atmosfera dei tuoi romanzi.

• Sicuramente, se non altro perché mi ha fornito un po' di quel linguaggio strano; ma descriverlo come un ambiente alternativo sembrerebbe buffo a chiunque abbia conosciuto me e quello che stava succedendo. Era veramente banale paragonato a quello che stava succedendo in altri posti, una versione soft-core della scena hippie, niente di pesante. Non credo che sarei sopravvissuto in un ambiente dello stesso tipo a New York o a Los Angeles.

Subivo proprio il fascino del ragazzo di provincia per queste cose criminali. Non c'è dubbio, comunque, che abbia lasciato un'impressione durevole su di me. Erano giorni prodigiosi.

Nessuno sapeva quello che stava per succedere.

• A quel punto non avevi pensato di diventare uno scrittore?

• Solo qualche volta. Allora non è che pensassi molto al mio futuro. Come moltissima altra gente, sentivo di vivere in un'epoca in cui ogni cosa sarebbe cambiata molto radicalmente.

Perché programmare una carriera quando stava per arrivare la Rivoluzione? Ero del tutto convinto che c'era qualcosa dietro l'angolo, che tutto sarebbe stato completamente diverso, in un modo che potevo a malapena immaginare. Quando mi sono accorto che niente sarebbe cambiato, e che anzi forse le cose sarebbero peggiorate, mi sono ritirato. Me ne sono andato in Europa e ho girovagato per un anno. Avevo una rendita che proveniva dalle proprietà dei mei genitori: non molto, ma abbastanza per fare la fame confortevolmente. Siamo ritornati in Canada perché mia moglie, Deb, voleva laurearsi, e ci siamo sposati qui a Vancouver, in modo che lei potesse andare alla U.B.C.. Quando Deb ha cominciato a laurearsi in linguistica, mi sono accorto che tutta questa storia dell'educazione superiore era una bella fregatura. Quando ci ripenso, e provo a immaginare cosa rispondere a chi mi chiede cosa ho fatto prima di cominciare a scrivere, dico solo: "Beh, ho lavorato per due settimane in un ristorante francese, per un po' sono stato in una fabbrica di barche in fibra di vetro, e poi sono stato assistente in un corso di storia del cinema (distribuivo i fogli durante le lezioni)". Ecco come è andata. Non è un gran curriculum. Se non mi fossi imbattuto nella fantascienza sarei, totalmente inabile al lavoro.

• Ed è stato quel corso all'Università di cui hai parlato prima, che ti ha fatto pensare di scrivere fantascienza?

• In fondo ho sempre saputo che con la fantascienza avrei finito per provarci. Ma tutte le volte che ci pensavo seriamente mi dicevo: Che stupidaggine! Non voglio andare in giro e rispondere alla gente che me lo chiede "Oh, sono uno scrittore di fantascienza". Me ne tenevo lontano perché pensavo che la fantascienza mancasse di classe; pensavo di regredire, in qualche modo.

• Cos'è che ti ha fatto entrare nell'ordine di idee giusto, è stato il successo immediato?

• Ho cominciato a divertirmi. Pensavo di aver riconosciuto una parte di me stesso (una parte a cui di rado ho accesso consciamente) che ha sempre amato la fantascienza, o almeno ne ama l'idea, anche se a questa idea era collegato come un senso strisciante di nostalgia.

Effettivamente avevo cominciato, avevo scritto un racconto, ma poi smisi perché non era successo niente. Avevo pubblicato il racconto su una rivista sconosciuta, e non so cosa diavolo stessi aspettando: una lettera da quelli del Pulitzer? Tu pubblichi qualcosa e aspetti che succeda qualcosa. E invece niente. Poi incontrai John Shirley a una Convention: era un personaggio strano, così diverso da tutta la gente che avevo incontrato nel mondo della fantascienza; mi sembrò che il mondo della fantascienza si fosse allargato, all'improvviso.

Quando mi ha chiesto cosa facessi gli ho risposto: "Sono uno scrittore". E quando mi ha chiesto "Stai scrivendo qualcosa ora?" io dissi: "Certo!". Era una bugia, ma dopo cominciammo ad entrare in corrispondenza, e ho scritto della roba che poi gli ho mandato.

• Ti interessa scrivere cose che non siano di fantascienza, per uscire un po' dal ghetto e per percorrere le vie impervie del mainstream?

• Si. Ho un po' paura di essere inchiodato a un'etichetta se faccio della fantascienza una scelta esclusiva, ma per il momento quello che mi sembra importante è trovare una via d'uscita a quello che sto facendo senza perdere il senso di ciò che sto facendo. Voglio trovare la mia strada nella narrativa mainstream, ma non voglio ricominciare daccapo. Riesco ad intravedere il modo, ma questa uscita laterale dalla fantascienza verso qualcosa di nuovo è diventata sempre più difficile. Gli scrittori di fantascienza lo prendono come un dogma, il fatto che sia praticamente impossibile uscire da questo ambito una volta che ci si è fatto un nome. Il prestigio non è una cosa che si possa trasferire.


Vancouver (Canada), 14 agosto 1986






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