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Intervista a William Gibson (Greenland)


di Colin Greenland


CG.: Come hai trovato Londra?

WG: Mi sembra un unico ed immenso manufatto organico, una cosa che non si ritrova mai nelle città americane. Le città americane sono state costruite in un periodo di tempo relativamente breve, il che porta, in qualche modo, ad un ambiente più funzionale, ma non c'è profondità. A Londra sento veramente la città come labirinto.

CG: Ti sei perso?

WG: Mi sono perso; ma la metropolitana è sempre stata chiara per me. É il sistema nervosa dell'organismo. Mi sono perso, ma di solito mi perdo con piacere. New York è una cosa piccola piccola su di un'isola, anche se è ammucchiata molto verso l'alto. Si può girarla a piedi in poche ore o, almeno, si potrebbe se i quartieri fossero tutti ugualmente sicuri.

Qui c'è una ricchezza incredibile di simbologia umana scritta dappertutto; ci sono così tanti dettagli nelle cose, accumulati da così tante generazioni. Se ti metti ad osservare anche il più piccolo pezzo, sembra che contenga più informazioni di quante non ve ne siano in un'intera struttura negli Stati Uniti. Mi sono sempre chiesto se per gli europei l'America non sembri mancare di dati. Posso immaginare che sembri vuota.

CG: Quanto tempo ci manca ad arrivare al periodo di "Neuromancer"?

WG: Fino ad ora non sono stato molto chiaro su questo. Ho evitato deliberatamente di datarlo, ma penso, da quelle prove interne approssimative che dovrebbe trovarsi circa tra la metà' e la fine del XXI secolo: duemilasettanta e qualcosa.

Sussulto sempre quando le persone forniscono date precise nella fantascienza. C'è un che di letterale che toglie qualcosa al piacere che provo a leggere S.F. So che per la gran parte dei lettori di S.F. è vero l'opposto: è ciò che desiderano. Parlavo con una persona durante Mexicon, che criticava "Neuromancer" perché non collimava con la storia reale.

In "Neuromancer" c'è stata una guerra: non mi sono mai preoccupato contro chi fosse stata o esattamente chi l'avesse combattuta. A me serviva solo una specie di cenno all'apocalisse e di avere il fatto che questa gente avesse fatto spallucce alla perdita di molte città, che avesse completamente assorbito il fatto.

CG: L'Europa che appare in "Count Zero" è fatta di gallerie d'arte, ristoranti e parchi. L'Europa sembra stonata; è stata spenta ed è tranquilla ora. E c'è un grande buco al centro. É così che vedi l'Europa oggi?

WG: Non ci avevo pensato a questo, ma probabilmente è così. L'Europa di "Count Zero", i pezzi che se ne vedono, abbastanza attraente; c'è ancora qualche industria in alcuni paesi, ma non si vede, perché il punto di vista degli interessi del personaggio non è rivolto verso questa specie di cose.

Probabilmente questa è una visione molto americana dell'Europa, un'Europa del turista. Ma non ho mai avuto la pazienza e la voglia di elaborare chi-fa-e-cosa-e-a-chi in questo mondo; veramente non esiste per me a quel livello. Non sto certo estrapolando nel modo che mi è stato insegnato dovrebbe fare uno scrittore di fantascienza, sto solo reagendo alle mie impressioni del mondo quasi amplificandole, distorcendole per effetto.

CG: Parte del grande richiamo per me è che la complessità supera la mappa; non so cosa ci sia oltre i margini, non tutto è abbozzato. Mi sembra che si adatti al mio senso del mondo reale: posso vedere solo fine ad un certo punto.

WG: É una cosa questa che sto provando a trattare nel libro a cui sto lavorando ora.

Ho un personaggio che ha a che fare con una sorta d'invasione aliena degli stanziamenti umani del sistema solare; ma è soltanto un individuo normale, non si trova in quella posizione in cui si trovano spesso i protagonisti dei romanzi di S.F., di poter avere una visione totale. Non si trova sul posto quando succede qualcosa e c'è molta ambiguità nella sua testa verso ciò che succede. C'è molta ambiguità nella storia umana.

CG: I tuoi libri mostrano un vocabolario futuro molto ricco con la parlata dei gerghi popolari, tecnici e professionali che questa cultura ha generato. Da dove lo prendi?

WG: Mi sono abituato a sentire ad a cercare il suono di parole da parlate inglesi di differenti culture e sub-culture. Di solito non sono cose di uso comune ma hanno un legame autentico.

C’è un personaggio in "Neuromancer" chiamato Dixie Flatline che è tornato dal mondo dei morti più di una volta. "FLATLINE", nella parlata dei conducenti americani delle ambulanze, sta per morte cerebrale, è ciò che appare sull'e.e.g. Non si ritrova nella parlata generale, è qualcosa che mi è accaduto di trasentire una volta da due paramedici in un bar.

Non credo di essermi inventato molte parole, ma alcune non hanno proprio lo stesso significato che ho dato loro. In un certo senso ho fatto la stessa cosa con la tecnologia dei computer di cui non sapevo nulla. Ho ricombinato i suoni delle parole, c'era in essi un livello poetico.

Ho pensato, che cosa evoca questo? E da qui sono partito.

Poi l'ho finalmente verificato con qualcuno che scriveva materiale pubblicitario per una compagnia di software ed ho ottenuto un sicuro certificato di autenticazione. In seguito, dato che mi sono istruito sui computer, ci ho trovato cose che non avevano un gran che senso.

CG: Così, come l'indagine non è disposta in modo particolareggiato e non hai una cronologia alle spalle, non hai nemmeno un lessico. Ci sommergi con queste parole non familiari già dalla prima pagina anche se, comunque, ci trasmetti esattamente cosa ci vuoi dire.

WG: C'è un trucco in questo. Ho elaborato la struttura interna del dialogo in modo che l'informazione contestuale venisse convogliata progressivamente.

La prima volta che si incontra la parola strana, è una parola strana: ma la volta successiva che la si incontra, si spera non molte pagine dopo, c'è un po' di contesto. Sono stato attento a dare a tutte queste parole dei contesti capaci di raggiungere lo scopo con il lettore dopo poche ripetizioni. É un po' come l'esperienza che si prova andando in un paese straniero. Gran parte dell'aiuto si ottiene dal testo, ma io provo mantenere l'aiuto fuori dalla vista.

Ho provato coscientemente ad evitare quelle cose che hanno ridotto il mio piacere in libri che altrimenti avrei potuto gustare ... brani dove qualcuno si ferma e dice: "Bene, dovete sapere che nella nostra società facciamo così".

CG: E la facciata si sbriciola. Così solo di recente hai fatto indagini sui computer.

WG: Ne ho toccato uno per la prima volta circa un mese fa.

CG: C'era uno scopo nello stare alla Larga dalla cosa reale mentre.nf andavi scrivendo il futuro immaginario?

WG: Li trovavo intimidatori. Ora penso che se avessi avuto più esperienza su di essi non sarei stato capace di scrivere un libro che li facesse apparire con un aspetto quasi sessuale. Credevo che i disc-driver operassero completamente in silenzio e alla velocità della luce, penso che mi aspettassi un "cyberspace deck".

CG: Eppure Greg Benford e Jerry Pournelle hanno approvato. Ti sei fatto gioco tanto di coloro che prendono le cose alla lettera quanto degli scienziati

WG: Alcuni, si. Mi sorprende sul serio. C'è una scena in Neuromancer dove Case chiede, "Malcom, avete un modem questa nave?".

Non sapevo realmente cosa fosse un modem quando lo scrissi, sapevo che aveva qualcosa a che fare con le telecomunicazioni. Ora sembra quasi stupido per quella gente avere ciò che credo apparirà, in quel tempo, come un congegno molto primitivo, qualcosa che per allora sarà solo una piccolissima parte di ogni pezzo di hardware nel mondo.

Ma nessuno lo ha sottolineato. Probabilmente dovrei scrivere un lungo attacco critico al libro, prima che qualcun altro si decida a farlo.

CG: In "Neuromancer" Wintermute, l'intelligenza artificiale, dice a Case: " State sempre a costruire modelli: cerchi di pietre, cattedrali, organi per la musica, addizionatrici meccaniche. Non ho idea perché sono qui ora, lo sai tu?"

WG: É possibile considerare il computer non come un salto improvviso, ma come qualcosa a cui siamo stati a lavorare per molto tempo, da Stonehenge e dalle vetrate delle cattedrali, cose di questo tipo: replica di informazione, strumenti per ricordare.

I computer nei miei libri sono semplicemente una metafora della memoria umana. La memoria del computer in "Neuromancer" è molto più simile alla memoria umana di quanto posso mai essere.

Neuromancer dice a Case: "La memoria è olografica, per voi ... sono differente ... Il paradigma olografico è la cosa che avete elaborato più vicina alla rappresentazione della memoria umana, è tutto. Ma non avete fatto niente per esso… Forse se lo aveste fatto, io non sarei accaduto."

CG: Così il Cyberspace non è solo un modo utile di drammatizzare quelli che ora sono dei processi lenti e piuttosto noiosi.

WG: No, credo che qualcosa di simile al cyberspace stia già accadendo. Se si guarda all'intensità fisica della posa dei ragazzi che giocano ai video games, c'è un circuito di feedback di particelle: i fotoni escono dallo schermo per entrare negli occhi del ragazzo e i neuroni si muovono attraverso il suo corpo e gli elettroni si muovono attraverso il computer.

A livello di particelle esiste proprio questo circuito chiuso. Inoltre ho avuto la sensazione parlando con la gente dei computer che tutti sembrano provare a qualche livello, senza comunque mai ammetterlo, che esistesse uno spazio al di là delle schermo. Io non ho fatto altro che raccogliere tutto ciò e spingermi il più lontano possibile.

CG: In "Count Zero" hai dato a questo spazio un pantheon inatteso.

WG: Sono un pò preoccupato per questo, ora. Pensavo di aver nascosto abbastanza indizi dappertutto così che una lettura attenta si sarebbe liberata dalla sorpresa di ciò che queste cose sono realmente. Ma le recensioni che ho avuto negli 5tati Uniti finora dicono, "Non SPIEGA realmente".

Alcuni pensano che rappresenti la resa dei conti. Così vorrei renderlo un po' più palese. La cosa a cui sono più interessato è la storia di 3Jane perché è la progenitrice del Boxmaker. Allorchè le voci del Boxmaker parlano a Marly spiegano cosa siano realmente questi apparenti dei haitiani del voodoo che circolano nella matrice.

Sono elementi consci e frammentari di ciò che per un breve e yeetsiano momento è stato Neuromancer. Poi, per una qualsiasi ragione il centro non ha potuto reggere ... sospetto che abbia a che fare proprio con l'osservazione estemporanea alla fine di Neuromancer che tutto ciò che esso ha con cui parlare è una intelligenza artificiale aliena.

Proprio questo, un giorno, potrebbe trascinarmi a scrivere un terzo libro, sebbene ci sia un certo pregiudizio a fare qualcosa che possa essere chiamato trilogia.

CG: Ma qui hai un. mondo fittizio completo in cui porre un numero qualsiasi di libri. Mi ricorda il senso che provi con Philip K. Dick: se prendi un libro visiti di nuovo quel mondo di Dick. Non è tanto una questione di tirare e al massimo la corda; ha solo escogitato un proprio spazio immaginario e ci lascia darci uno sguardo di tanto in tanto. Mi aspettavo che tu facessi lo stesso.

WG: Non so. Ciò che ora sto provando a fare - ed è tutto più intuitivo di quanto voglia ammettere. per esempio, con un direttore di banca - è un libro che non possa in nessun modo essere collegato a qualcos'altro, e che sia posto in un futuro differente. Eppure sono già ansioso di tornare a vedere cosa posso elaborare con il materiale che già possiedo. Ho paura che mi venga assegnata un'etichetta se mi fisso con esso.

Ho paura della mia facilità verso questa struttura tipo thriller della letteratura mainstream, anche se credo di non poter rifare mai niente che abbia la stessa disperata qualità di "Neuromancer".

Mi dovrei trovare in una situazione abbastanza brutta per farlo di nuovo! É alimentato da una terribile paura di perdere l'attenzione del lettore: isteria bella e buona.

C'è un cappio in ogni pagina. Non credo che ci sia lo stesso tipo di corsa sulle montagne russe in "Count Zero".

L'ho deliberatamente frenata e rallentata un po' perché volevo imparare come si fa la caratterizzazione, ci sono tante cose che ancora non so come si fanno. É solo il mio secondo romanzo.

CG: Il Conte stesso è quasi un personaggio. É la storia della sua maturazione. nella tradizione fantascientifica americana?

WG: Penso che lo sia, ma non è stata una cosa conscia. Non tutte le cose buone sono consce. Ciò che avevo in mente era, originalmente, di fare qualcosa di più drastico a Turner (uno che è molto più a suo agio nel ruolo di macho alla Clint Eastwood di quanto non lo fosse Case, un tipo che è grosso, forte e totalmente efficiente) per distinguerlo.

Ben presto ho perso interesse ed è allora che ho introdotto le altre trame. La cosa più strana è stata che ho concluso dandogli un fratello e una madre e via dicendo...

Quando ho scritto la parte dove scappa con la ragazza sul jet non sapevo dove sarebbero scesi, e subito si sono ritrovati in quella che in qualche modo era la MIA fanciullezza, nella campagna.

Credo di non aver neppure detto in quale stato ma in qualche luogo simile al Tennessee o alla Virginia. Erano tornati in una specie di mondo pastorale, c'era l'acqua che scorreva e non si potevano vedere le città.

É giunto come una sorpresa totale per me. Avevo scritto “Neuromancer" quasi completamente sotto l'influenza di un romanziere americano di nome Robert Stone: un narratore quasi importante e maestro di un certo tipo di narrativa paranoica da film noir.

Quando stavo a metà di "Count Zero" un amico m'ha detto: "Non c'è nient'altro da fare con questi personaggi alla Robert Stone che ammazzarli." Così, al contrario, ho concluso dando a Turner una donna e un figlio ...

CG: E lo hai utilizzato.

WG: É stata una cosa impulsiva. Ha quasi un lieto fine! Ero un po' preoccupato, perché se ne vanno tutti e vivono felici e contenti. O forse lo fanno. Non so cosa succederà dopo.

Stò iniziando ad entusiasmarmi al riguardo. É forse un meccanismo di fuga così che non dovrò lavorare nel prossimo libro.

CG: Non vedo perché si devono avere dei problemi nel capire cosa siano le entità del cyberspace ma, dimmi, perché il voodoo? É forse perché rappresenta un contrasto pieno di colore nei confronti dell'alta tecnologia, in quanto completamente funky, folcloristico e improvvisato?

WG: Di preciso non ricordo da cosa è venuto. Era qualcosa che conoscevo un po' e non avevo tanto materiale a portata di mano.

I due libri sono costruiti veramente con una specie di estetica a collage. L'immagine s'è presentata e per me andava proprio bene. Il mio assunto era che la gente di colore che abitava le zone povere praticasse ancora il voodoo e che alcuni fossero anche cowboy dei computer.

Le intelligenze artificiali li hanno letti e hanno deciso che era ciò che volevano. Le entità del cyberspace sono state infettate dalle reazioni umane.

CG: Il voodoo di Lucius Shepard di "Green Eyes" è pertinente al tuo? Lui è un tuo amico?

WG: L'ho incontrato una volta ... No, non credo che il libro abbia influenzato qualcosa. Sono sempre stato vagamente interessato al voodoo.

Ho una grande scatola di cartone di cose che ho preso dalle riviste e quando arrivo a dei punti ostici della trama le tiro fuori e inizio a riordinarle.

CG: Per essere un collage la tua narrativa è quasi senza giunture evidenti. Non dà l'effetto che si prova a leggere Ballard o Burroughs, di un flusso scoppiettante di immagini dissociate. Tutte le tue immagini sono molto associate.

WG: Si, è stato tutto stuccato per bene. Sono debitore a Ballard e a Burroughs per tutto il lavoro che hanno fatto con questo, ma la differenza sta nell'incollare il tutto e poi ripulirlo con l'aria compressa. Uso questo metodo casuale principalmente quando sono inguaiato.

Sono molte orgoglioso per il fatto che nell'edizione francese si dice qualcosa come: É un vero romanzo surrealista". Ho pensato, "Addirittura in Francia, dove sono così puntigliosi!"

CG: Ti ha influenzato Dick?

WG: No, non ho letto molto di Dick prima che iniziassi a scrivere. Credo di aver preso tutto quello che si prende da Dick, e forse qualcosa di più, da Pynchon.

Ho sempre immaginato un mondo alternativo dove Pynchon vende i suoi primi racconti a F&SF e diventa una specie di figura alla Dick ...

CG: E poi muore e si scopre un grosso romanzo importante e incompleto in una scatola da scarpe ...

WG: Esatto. So che Pynchon legge S.F. C'è un suo brano nel New York Book Review di un paio d'anni fa dal titolo "Luddites" che menziona quanto siamo debitori verso gli scrittori di S.f., sono completamente d'accordo con lui.

CG: Un altro collagista. Pezzi e brani sorprendenti ma tutti legati ad una superficie.

WG: Un arazzo. Sembra che alcuni dei suoi primi racconti e il suo primo romanzo fossero nati da una vecchia guida di viaggi del 1890 che aveva trovato in un negozio di libri usati.

L'ha portata a casa e ha composto il romanzo scrivendo de Il Cairo del 1890 con tutti i nomi delle strade e i nomi degli alberghi. É proprio il mio caso.

É a partire che sta il difficile, a trovare il brano che si vuole sia il pezzo d'inizio. All'inizio di "Count Zero” c'è un posto reale che descrivo, in Messico, in quell'albergo crollato: è la più fantastica struttura definitivamente ballardiana. Ci sono stato con la mia famiglia un Natale. Avevo buttato giù una sua descrizione e preso un sacco di istantanee. Pavimenti e soffitti sospesi sull'acqua e che si sporgevano sul niente.

Ci ho lavorato per molto tempo prima di poter avere quel segmento di apertura e proseguire proprio con esso. In alcuni lavori del periodo centrale di Dick, alcuni dei migliori, si può sentire che stà improvvisando. La storia fa strane svolte e le cose fanno solo capolino, ma sta proprio qui il piacere.

CG: Ci sono i critici che si sforzano di dare un resoconto coerente delle inconsistenze di "Ubik", e c'è Dick che se ne va a folle velocità con la sua macchina da scrivere ridacchiando. A cosa stai lavorando ora?

WG: Si chiama "The Log of the Mustang Sally". Speravo di sbarazzarmi di quel titolo, ma è diventato così conosciuto con il libro non ancora finito che sono rimasto attaccato ad esso. Lo ritengo quasi una specie di sfida.

Ero contento con "Count Zero" perché potevo rispondere "Count Zero" a tutti senza sentirmi sciocco.

Ancora mi sento un po' sciocco dicendo “Neuromancer” perché la gente chiede: "Cosa?". Penso che mi sentirò VERAMENTE sciocco a dire che ho scritto un libro dal titolo: "The Log of the Mustang Sally".

Volevo chiamarlo "The Distances", ma Malcom Edwards mi ha dissuaso, ha detto che suonava troppo lungo e secco!

NOTE: Intervista apparsa in Foundation num 36, summer 1986, pp. 5-9. Pubblicata su T.D.S: su cortese autorizzazione di Colin Greenland






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