Virtù del virtuale
di Marco De Martino
L'Italia è ridivisa in tre. Tokyo non c'è più e una nuova città sta nascendo sulle ceneri del terremoto Godzilla. A San Francisco, capitale della SoCal, o California del Sud, il Bay Bridge è uno scheletro di acciaio conquistato dai mendicanti. L’inquinamento ha stravolto Città del Messico dove cadono fiocchi di neve fecale. Le radiazioni solari costringono a indossare lenti a contatto protettive. Va forte una setta che crede che Dio si manifesti nei film di serie B. È insomma un mondo totalmente plausibile il 2005 che William Gibson racconta nel suo ultimo romanzo Luce virtuale, che Interno giallo pubblica in questi giorni.
Certo, ci sono di mezzo quegli occhiali che a contatto col nervo ottico mostrano il piano segreto per la ristrutturazione di San Francisco.
E certo, sono di proprietà del cartello di Medellin che non si occupa più di cocaina ma quasi solo di riciclaggio di informazioni elettroniche.
D'altra parte, la dose di normalità che si può chiedere a uno come Gibson è limitata: lui è quello che ha inventato il cyberspazio, come gli dicono i fan quando lo riconoscono per strada. "Si, e voi non mi permetterete mai di dimenticarlo" risponde quando è di cattivo umore.
Capita anche che conceda un autografo: di solito vogliono che firmi la base dei loro portatili. William Gibson da Vancouver la prende ormai con filosofia: il suo destino è continuare a bazzicare il mondo virtuale che per primo descrisse in romanzi come Neuromante, Giù nel cyberspazio e Monnalisa cyberpunk.
Da lì sono nate le sue fortune di scrittore, il più immaginifico autore di fantascienza vivente. Da lì cercò di scappare ambientando la sua penultima opera, The difference engine, nell'Inghilterra vittoriana. Ma tra i circuiti elettronici Gibson torna ora non solo con il suo ultimo libro ma anche con il primo film basato su un suo soggetto, Johnny Mnemonic. Arriverà nei cinema l’anno prossimo e sarà interpretato da Keanu Reeves e Dolph Ludgren per la regia di Robert Longo. William Gibson fa con Panorama il punto sui futuri di cui è profeta.
Domanda. Che pensa oggi del cyberspazio, a dieci anni dal primo romanzo in cui se ne parlo?
Risposta. È il territorio che creiamo quando usiamo i computer. Non l'ho inventato io: ho solo dato un nome a qualcosa che si stava già verificando.
Oggi il cosiddetto mondo virtuale ha di fatto sostituito per importanza il mondo reale. Nel cyberspazio avvengono le contrattazioni di borsa e lì la banca tiene i tuoi soldi.
È il luogo dove le aziende e i governi hanno memoria di te.
È uno strumento di controllo o di democrazia?
È un territorio neutrale che i politici cercano di regolamentare perché, in ultima analisi, la rete di comunicazione via computer significa la fine della geografia e della politica basata sulla divisione del territorio. Quando sei in linea le razze e le nazionalità non contano. O forse contano in modo diverso: più il mondo assume prospettive globali, grazie all'ombrello di comunicazione che lo protegge, e più si balcanizza. Oggi, le nazioni si dividono in unità etniche, o meglio in grandi tribù: esattamente il contrario di quel che prevedevo. Ma non pretendo di capire cosa stia succedendo.
Capire il futuro non è il lavoro dello scrittore di fantascienza?
Secondo me, la fantascienza è un tentativo di capire quel che ci turba del presente. Spesso abbiamo bisogno di vederci normali, ma la verità è che molto di quel che ci circonda è mostruoso.
E infatti in posti reali, senza leggere fantascienza, che mi sono sentito più vicino al futuro. A Singapore, che è una specie di Disneyland con la pena di morte. A Berlino Est, Hong Kong, Città del Messico: ovunque la vita sia diventata un'esperienza talmente estrema che se io dovessi viverci passerei il tempo urlando.
Ma allora ha ancora senso parlare di fantascienza?
Bisogna distinguere. Anche se mi lusinga pensare di avere lasciato un segno nella storia di questo genere, ancora adesso i romanzi di fantascienza sono in maggioranza opere reazionarie, una maniera per mandare in un altro mondo quelli che non ci piacciono. Direi, invece, che la letteratura in generale sta avvicinandosi sempre più alla fantascienza. Così va il mondo. Essere realisti oggi impone di parlare di virus incurabili, pulizie etniche e buco dell'ozono.
Una volta erano i temi della fantascienza, oggi fanno parte della nostra vita.
Eppure, non ci sono spuntate le antenne: non dovevamo diventare tutti machine?
Non credo che ci succederà mai. Siamo talmente simili alla televisione che guardiamo che ci è ormai impossibile capire quanto l'immagine televisiva abbia cambiato il nostro modo di percepire le cose. Dopo che una tecnologia coabita con noi per un po' di tempo, è impossibile rendersi conto di come ci ha trasformati. Lo aveva già capito Marshall McLuhan scrivendo di tv ai suoi inizi. È in questo senso che il cyberspazio c'è già. E vedere 10 mila morti in tv rimarrà sempre un'esperienza meno reale dell'incidente senza feriti a cui assistiamo sotto casa. Ma se questo è preoccupante, significa anche che rimarremo intensamente umani e capaci di provare emozioni.
Ma tutto questo cambierà la nostra idea di esperienza?
Che qualcosa cambierà mi era già chiaro quando ho scritto Agrippa, un breve racconto sulla morte di mio padre, avvenuta quando avevo 6 anni. Per cercare di comunicare l'irripetibilità degli eventi che compongono la memoria che ho di lui, ho voluto che il libro non fosse pubblicato su carta ma su floppy-disc, in modo che ogni riga scomparisse dallo schermo dopo la lettura. Volevo che anche per chi leggeva, l'incontro con mio padre fosse un'esperienza unica. Ma due mesi dopo la pubblicazione è suonato il telefono e il fax ha cominciato a vomitare le pagine di Agrippa: degli hacker avevano decodificato il codice che ordinava al computer di cancellare il testo e ora il libro è consegnato alla immortalità delle reti telematiche, da cui tutti lo possono estrarre quando vogliono.
Che morale ne ha tratto?
Non capisco se si tratta di una parabola sulla morte, sul futuro dell'editoria sulla pirateria elettronica.
Ha contatti con i cyberpunk?
In quanto ex hippy, li sento vicini. Credo che rappresentino una forma di bohème, e come tutte le bohème segnala un passaggio sociale: dalla fase industriale a quella informatica. Questo spiegherebbe anche perché ormai è impossibile distinguere tra underground e cultura emersa. Ma non mi collego a nessuna rete telematica, ho solo un vecchio computer Macintosh, e nella mia comunità virtuale si comunica via telefono e via fax.
Se avesse una macchina del tempo, dove le piacerebbe andare?
Nel passato. Nel 1915, a Los Angeles. Solo una veloce visita per vedere il paradiso che hanno distrutto.
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