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L. Sprague De Camp: umorismo e fantasia


di Marcello Bonati


Eccoci, dunque, ad analizzare cronologicamente alcuni romanzi di L. Sprague De Camp; spazieremo dal suo primo periodo fino alla produzione più recente, lasciando da parte, volontariamente, la parte della sua opera che riguarda la continuazione e la rifinitura dei testi howardiani (di cui vorrei parlare in seguito in un altro articolo dedicato espressamente a Howard ed ai suoi "coadiuvatori" sia a lui contemporanei che postumi). Iniziamo con "Abisso del passato" (Lest Darkness Fall, 1939) (1).

Vecchio classico, questo romanzo tratta del tema dei viaggi nel tempo.

Certo oggi come oggi tale tema è trito e ritrito, basti pensare a romanzi come "I guardiani del tempo" (Guardians of Time, 1960) di Paul Anderson, o a "Il paradosso del passato" (Up the Line, 1969) di Robert Silverberg, e tanti altri ancora che da quando è stato pubblicato questo "Abisso del passato" sono apparsi nelle nostre librerie. La caratteristica saliente che marca, se così si può dire, questo testo, è l'erudizione con cui l'autore affronta il tema, ovvero; la trama è infarcita di cognizioni storiche molto precise, e, ad un certo punto della lettura, il lettore si chiede: "Ma devo sapere la storia romana antica per capirci qualcosa?" La risposta è no, anche se, evidentemente, sarebbe meglio; ovvero, se qualcuno di voi è un latinista, ha appena sostenuto un esame di storia romana, o qualcosa del genere, qui troverà pane per i suoi denti.

Altra caratteristica è la velocità con cui si succedono gli episodi, che a volte è veramente vorticosa; un po’ come accadeva nei vecchi romanzi di Van Vogt, anche certo non fino a raggiungere quei livelli di caleidoscopicità. La vena ironica, tipica del Nostro, già si intravede, anche se non ai suoi massimi livelli, e chi cerca della poesia in prosa stia ben lontano da questo romanzo.

Molto interessante, in conclusione, il saggio di Moskovitz, uno dei pochissimi sussidi critici per chi voglia affrontare la lettura dell'opera del Nostro, anche se lo segue solo fino al '64 ed il resto della sua produzione è coperta unicamente da una breve nota, incompleta, dell'autore.

Passiamo quindi ad un altro romanzo, comparso anch'esso nel 1939, "Le dimensioni del sogno" (The Carneliann Cube) (2), che De Camp scrisse in collaborazione con Fletcher Pratt che, principalmente, è confuso.

Si tratta del vagabondaggio del protagonista, Arthur Finch, da un mondo all'altro, da una dimensione all'altra, in un quadro generale che si tenta sempre di costruire ma che sfugge ogni volta di mano.

I mondi hanno diverse caratteristiche, per lo più improntate su diversità sulla scala razionale-irrazionale, ed il tutto è tenuto insieme da un tenue filo, il fatidico cubetto di Caniola, (al titolo originale), che è il mezzo attraverso il quale Finch trasborda da una dimensione all'altra. La passione per gli studi storici e gli arzigogolamenti intellettualistici di De Camp riaffiorano in pieno, come pure la sua ironia tutta particolare; certo non saprei dire quali parti ha scritto l'uno e quali l'altro, ma, nell'insieme, la presenza di due personalità si riscontra appieno.

In conclusione, un libro che non consiglio proprio a nessuno; se avete letto qualche libro di De Camp e vorreste leggerne altri, escludete, a colpo sicuro, questo. Per lo meno la traduzione e l'introduzione sono state fatte dalla nostra bravissima Roberta Rambelli... che chissà cosa sarebbe saltato fuori, altrimenti!


Salto di due anni, ed esce "Gorilla sapiens" (Genus Homo, 1941) (3), anche questo a quattro mani, ma questa volta è P. Schuyler Miller il collaboratore, ed i risultati sono decisamente migliori. Splendido classico, questo, nel parlare del quale non si può fare a meno di ricordare l'altrettanto e forse più famoso "Il pianeta delle scimmie" (La planéte des singes) di Pierre Boulle, pubblicato, comunque, parecchi anni dopo di questo, e di conseguenza la tetralogia di film ad esso ispirati recentemente regalataci da mamma RAI. Il romanzo si può suddividere tranquillamente in tre parti: nella prima c'è il risveglio degli occupanti di un pullman addormentati per secoli da un gas appena inventato, il loro progressivo rendersi conto della situazione in cui si trovano ed il loro organizzarsi, oltre ai primi contatti con una natura totalmente mutata; la seconda parte, invece, narra del contatto di questi superstiti del genere umano con i nuovi padroni della terra, i Gorilla, che hanno civiltà, città, scrittura, cultura, tutto quanto; nella terza parte vi è la guerra dei Gorilla, affiancati dagli umani e dalla civiltà dei castori giganti, contro i Babbuini, acerrimi nemici da secoli; con la vittoria finale, chiaramente, dei primi.

Il tutto è molto scorrevole, di piacevole lettura, con pochi punti deboli e non rari spunti di umorismo piuttosto ben riusciti. Il tono è leggero, forse più che nel sovracitato "Il pianeta delle scimmie" e la situazione, per lo meno insolita, viene fatta risaltare con una maestria tale da renderla del tutto credibile, sia sul piano scientifico che su quello umanistico. In conclusione, veramente ottimo, anche se, forse, la terza parte sarebbe stata più gustabile se invece della guerra avesse avuto come argomento quello dell'adattamento progressivo degli umani nella società gorillese... ma non si può avere tutto dalla vita, accontentiamoci; per un finale come lo avrei voluto io il romanzo avrebbe dovuto essere stato scritto non nel '41 ma per lo meno a metà degli anni '60.

L'anno successivo, esce "La terra dell'impossibile" (Land of Unreason, '42) (4), altra collaborazione con Fletcher Pratt, ma di tutt'altra fattura.

Qui siamo in piena fantasy, tanto è vero che il mondo in cui si svolge la scena è un mondo alternativo, è Fairyland, il paese delle fate.

Un diplomatico inglese, durante la seconda guerra mondiale, viene scaraventato per un errore, piuttosto fantasioso, in questo mondo alternativo, e ivi viene trattato come un changeling, un bimbo rapito dal mondo dei mortali; ma ben presto il suo destino muta, la sua maturità viene scoperta, e le sue doti di diplomatico vengono messe a frutto.

Portato alla corte di re Oberon, viene a sapere di strani terribili mutamenti che stanno infestando Fairyland, e viene mandato in missione presso i Coboldi, popolo delle colline, che, a differenza dei sudditi di Oberon, possono maneggiare il ferro, e che starebbero progettando una guerra contro il reame.

Ma la missione si rivelerà molto più estesa e complessa del previsto; le mutazioni toccheranno in prima persona Barber, che man mano diverrà il protagonista di una leggenda antica; sconfiggerà i Coboldi, toccando il primo sito, si trasformerà in ranocchio, e sotto codeste spoglie debellerà una dittatura, toccando il secondo sito, poi, trasformatosi in essere dotato di ali di pipistrello, giungerà, nel più nefasto momento delle mutazioni nel regno di Oberon, al castello di Wartburg, ove ritroverà la sua vera identità, quella del Barbarossa della leggenda, lui e Oberon stringeranno un'allenza, e la pace ritornerà su Fairyland.

Queste le tracce principali della trama, al cui interno, però, ritroviamo infiniti piccoli incantesimi, disquisizioni, strade da cercare.

È quindi un tipico romanzo di Recherque in cui il protagonista, attraverso le proprie peripezie, ritrova sé stesso, ma sotto nuove vesti; molto marcata, infatti, la continua sensazione di Barber di trovarsi in procinto di scoprire qualcosa di estremamente importante, come quando, nel finale, si trova di fronte a sé stesso, ibernato, sotto la calotta di ghiaccio: "Un brivido di travolgente attesa lo percorse, quasi si trovasse alla soglia di qualcosa di splendido e terribile allo stesso tempo..."

Come ben dice Lin Carte nell'introduzione: "Nella loro collaborazione (di De Camp e Pratt) rientrava una ricchezza di cognizioni mitologiche e letterarie oltre che uno studio altamente tecnico di magia rituale o anche accenni di antropologia."

In conclusione, stupendo, veramente da non perdersi, una lettura entusiasmante e realmente ricca di simbolismi e di rimandi, che è ben difficile perdersi, sbagliare linea interpretativa, come, d'altro canto, è estremamente facile spaziare in luoghi mentali molto ricchi.

L'introduzione di Lin Carter: "Un americano del Michigan alla corte di re Oberon", è molto ricca di dati, specialmente su Pratt e sull'inizio della collaborazione De Camp-Pratt; a che piacesse Tolkien e compagnia bella... non se lo lasci scappare.

Ora il salto è molto più lungo, ben nove anni, fino ad arrivare all'uscita di "La principessa indesiderata" (The Undesidered Princess, 1951) (5).

Anche qui si tratta di fantasy, ma, a differenza del precedente, l'ambiente in cui si svolge l'azione non è un mondo di tale genere, più o meno riconoscibile; la trovata è quella di un mondo in cui valgono le leggi aristoteliche, per cui una cosa è tale o non tale, senza possibilità di dubbio. Il protagonista è Rolling Hobart, un ingegnere di New York, che viene rapito da Himon, un asceta di tale mondo parallelo. Il feeling che regge tutta la storia è quello del continuo tentativo del protagonista di svincolarsi dagli impegni in cui si trova invischiato per tentare di tornare al suo mondo, il nostro mondo. Ma, in una spirale di avvenimenti, lo vediamo salire gradualmente la scala sociale di quel mondo, fino al ruolo di dio; una volta raggiuntolo, però, darà ordini tali da esaudire, alfine, il suo più profondo desiderio. Non manca, quindi, il lieto fine, con pure il matrimonio con la bella principessa Argimanda, da lui salvata per ben due volte, che lo segue, o meglio, lo precede, nel mondo reale, insieme ad un leone rimpicciolito alle dimensioni di un gatto.

I colpi di scena non mancano, né tanto meno gli spunti di divertita speculazione sulle possibili conseguenze di un mondo retto da tali leggi.

In conclusione un buon romanzo, piacevole e scorrevole; unica pecca del volume è la mancanza della sia pur minima introduzione; qualche accenno lo si può trovare nella già nominata introduzione di Lin Carter.

Arriviamo adesso a quelli che possiamo tranquillamente considerare i romanzi di Heroic fantasy del Nostro, che sono tre, di cui uno isolato e due che insieme formano un ciclo; il primo è "L'anello del Tritone" (The Tritorian Ring, 1953) (6).

È l'avventura di un principe dell'età del bronzo, un principe di Poseidonis, Atlantide, ai tempi in cui non era ancora scomparsa.

È, inutile dirlo, un viaggio pieno di avventure e, soprattutto, di duelli cappa e spada, di incantesimi e di magie, alla ricerca di qualcosa, che in questo caso è il fatidico anello del tritone, la cosa più temuta dagli dei, poiché interrompe i contatti tra questi ed i mortali che ne sono in possesso.

Più precisamente è il ferro, metallo che, nella leggenda interna al libro, è piovuto dal cielo, sotto forma di meteora.

L'ingegno di De Camp si riscontra soprattutto nella descrizione di infinite civiltà, popoli, nazioni e costumi, mentre decisamente stucchevoli, a volte, le descrizioni più o meno sempre uguali di duelli.

Altro fattore interessante è che i nemici contro cui combatte l'eroe,sono degli dei, che, alla fin fine, risultano piuttosto buffi, appunto, sulla via della sconfitta, della loro definitiva scomparsa, già intrasentita verso la fine del romanzo.

Molto ben fatta l'introduzione di Riccardo Valla, in cui tenta, con ottimi risultati, di inquadrare questa parte della produzione di De Camp nell'ambito della tradizione di questo genere, venendo a riscontrare l'esistenza di due scuole all'interno di essa, ovverosia quella che segue Lovecraft e quella che imita Howard... e, chiaramente, De Camp fa parte di questi ultimi. Ultima nota: facendo un'eccezione, nominerò qui un racconto del Nostro, "L'occhio di Tandyla" (The Eye of Tandyla, 1951) (7), che ha per sfondo lo stesso mondo di questo romanzo, e che rende noto al lettore un piccolo particolare dell'opera; cosa sia l'imprecazione più usata da Vakar, l'eroe protagonista.

Dicevamo dei due romanzi uniti in un ciclo; essi sono: "La torre di Goblin" (The Goblin Tower, 1968) (8) e "Jorian di Iraz" (The Clocks of Iraz, 1971) (9), che narrano, appunto, le avventure di Jorian nel mondo di Novaria. Il primo è la storia della mancata esecuzione di Jorian, della sua fuga e del conseguente debito che egli deve pagare a Karadur, il mago suo salvatore.

In sintesi, Jorian era un re che dopo un tot numero di anni doveva, per legge, essere decapitato, ma che non gradiva eccessivamente questa "strana usanza", come dice un barbaro nella prima riga del romanzo.

Il favore che Jorian deve fare al mago è quello di recuperare lo scrigno di Avlen, contenente antichi incantesimi. Alla fine "…il maledetto scrigno"... (sarà) ... "Sepolto fra le rovine della torre di Goblin, dove almeno non provocherà guai per un bel po’ di tempo a venire" (pag. 230).

Caratteristica saliente del romanzo sono le innumerevoli storie che inframmezzano la vicenda principale; bastino per tutte quella che Karadur racconta a Jorian sulla storia della città in rovina di Culbagarth (pag. 152-157), e quella che Jorian racconta ai sacerdoti del dio Gorgolor, sul re Forimar di Kortoli (pag. 193-199), corredate ognuna di una sua morale: ""Sembrerebbe che la morale sia di non fidarsi di nessuno, nemmeno degli déi". Disse Jorian. "No, non proprio così figliolo. La morale è, piuttosto, di esercitare una discriminazione nel proprio comportamento sia verso gli uomini sia verso gli dei, e fidarsi solo di chi merita fiducia." (pag. 157); "La morale... è che... ogni virtù si trasforma in vizio, quando la si pratica con rigore e saldezza di fede eccessivi." (pag. 199).

Lo scrigno viene recuperato circa a metà romanzo: "Alla fine scoprì lo scrigno nel posto più ovvio: sotto il letto di Yargali (la principessa serpente). Era un piccolo bauletto logoro, lungo circa un cubito e mezzo, largo e profondo un cubito, con una vecchia striscia di cuoio avvolta tutt'intorno per rinforzare i fermagli di ottone." (pag. 141).

Innumerevoli, inutile dirlo, le varie peripezie che i due, Jorian ed il mago, devono superare, nonché i personaggi secondari che appaiono a più riprese, facilitando enormemente il lavoro del lettore, che si vede riaffacciare alla memoria i brani che, magari, nel frattempo si era dimenticato e che al momento gli sono utili per la costruzione del quadro della vicenda.

Uno tra i migliori è senza dubbio quello della "Rocca d'ascia", in cui si narra di come Jorian ed il mago salvino alcune schiave dai malvagi propositi di una comunità di boia di professione che vivono, appunto, in un'isoletta isolata dal resto del mondo. (pag. 76-99).

Una volta recuperato lo scrigno, però, non è ancora finita; lo riperderanno e lo riconquisteranno, per, alfine portarlo dove volevano portarlo, il conclave degli Altruisti, una delle due congregazioni di maghi, che, chiaramente, sono in opposizione: "... Rhitos appartiene alla Fazione Nera, ossia ai benefattori, e quindi vorrebbe che i potenti poteri della magia restassero racchiusi nell'ambito della gilda, mentre io (Karabur), che sono della Fazione Bianca, ossia degli Altruisti, vorrei volentieri diffonderli fra la gente per aiutare le masse sfruttate." (pag. 22).

Per tutto il corso della narrazione Jorian compie gesta eroiche e viene salutato come tale, ma lui, da parte sua, preferisce definirsi così: "Io non sono un eroe-brontolò Jorian-sono un semplice artigiano che vorrebbe solo piantare le radici da qualche parte e guadagnarsi una vita decente." (pag. 185). In conclusione, un racconto a volte avvincente, a volte estremamente tedioso, soprattutto nelle, secondo me, eccessivamente lunghe divagazioni dalla trama principale.

Curioso un episodio molto breve del primo capitolo, in cui Jorian, per sfuggire all'esecuzione, si ritrova su di un altro livello in cui c'è una autostrada e delle macchine; divertente l'approccio del re barbaro con la civiltà: "Lungo una delle due strisce pavimentate un oggetto si muoveva con fracasso verso di lui. Sulle prime pensò che fosse un mostro da favola: una cosa bassa e gibbosa, con sul davanti un paio di grandi occhi vitrei e rilucenti. Sotto gli occhi e appena sopra il suolo una fila di argentee zanne era scoperta in un maligno sogghigno... Mentre l'oggetto passava, Jorian vide che aveva le ruote; non era un mostro, dunque, ma un veicolo." (pag. 13).

E non meno divertenti le sue frettolose congetture sulla natura degli abitanti di quel livello: "Si meravigliò che la gente, in questo mondo, riuscisse a vivere abbastanza a lungo da diventare piloti di quei veicoli… a meno che i nativi vivessero tutta la loro vita dentro di essi, senza mai mettere i piedi a terra. Forse non avevano neanche i piedi, da mettere a terra..." (pag. 14).

Il secondo, "Jorian di Iraz", segue le fattezze del primo in tutto e per tutto, soprattutto per quanto riguarda le storielle raccontate da Jorian a questo e a quello, che vediamo collegarsi man mano fra di loro, quasi a creare un romanzo nel romanzo, una struttura decisamente insolita, ma che, alla lunga, risulta anche piacevole.

Jorian viene ripreso da uomini del suo antico regno; aiutato ancora una volt dal mago Karadur: lui, Jorian, vorrebbe ritrovare Estridis, una delle sue ex-mogli dell'harem, ma i due si trovano invischiati in molte traversie (guarda caso), fino ad essere assediati nella città di Iraz, guerreggiare, vincere, essere coinvolti in riti e lotte intestine... poi il re di Iraz muore, e nomina suo successore proprio Jorian, che non ne vuole sapere. Alla fine Jorian e Karadur fuggono su una vasca da bagno volante... l'ultima di tante battute più o meno divertenti-a volte, bisogna dirlo, sono proprio cretine-che costellano il romanzo.

In conclusione, questi due romanzi non sono certo il massimo, non è certo in queste pagine che De Camp si rivela al suo meglio.


Nel 1960 esce "Il castello d'acciaio", comprendente tre romanzi, "The Incomplete Enchanter", "The Castle of Iron" e "Wall of Serpents" uniti in un unico ciclo, quello delle avventure di Harold Shea. Il tema è quello degli universi paralleli, ed in questo lo si può avvicinare molto a "La principessa indesiderata" e "La terra dell'impossibile"; in effetti questi tre romanzi compongono una trilogia di fantasy pura, in opposizione a quella di heroic fantasy, che, come abbiamo già fatto notare, è estremamente meno interessante. (10)

Un gruppo di psicologi scopre un metodo per passare da un universo all'altro; ma che tipi di universi sono?

Sono i mondi creati dalla fantasia dei grandi della letteratura.

Nel primo libro, "L'incantatore incompleto", Harold Shea vuole sperimentare, all'insaputa dei suoi colleghi, la nuova scoperta; ma dove andare?

"-L'Irlanda! Ecco che cosa ci voleva... L'Irlanda di Chuchlinn e della regina Maev.-Ma..."

"...c'era stato un errore nelle equazioni o nel loro uso ed era stato scagliato in un mondo della mitologia scandinava."; per la precisione nel mondo della mitologia Norvegese.

Un centinaio di pagine, ed ecco che Shea ritorna nel nostro mondo, per poi ripartirne dopo poco col suo collega Chalmers, verso: "Faerie Queen la regina Faerie, il mondo fatato di Spancer."

Là Shea trova moglie, la bella Belthebe, con cui, alla fine, torna nel nostro mondo (vi ricordate Argimanda e Rolling Hobart ne "La principessa indesiderata"?).

Nella seconda parte, "Il castello d'acciaio", Shea, assieme a Bayard, un altro suo collega, Polacek, un assistente, e Pete, un poliziotto, si ritrovano, per un altro errore, niente popò di meno che nel mondo sognante di Xanadù, dalla poesia di Coleridge.

Il poliziotto voleva sapere dove erano spariti Chalmars e Belhebe, e, nel frattempo Chalmars, trasbordato da Faerie Queen al mondo dell'Orlando Furioso dell'Ariosto, è lui a sbagliare, ed a mandarli a Xanadù.

In un modo o nell'altro, comunque, finiscono per ritrovarsi tutti nel castello di Atlante... tranne Pete il poliziotto e Bayard lo psicologo, che... vedremo riapparire più avanti.

Shea recupera Balphbe (che nel frattempo aveva cambiato nome e si era dimenticata di lui), Chalmars (diventato un grande mago) e Vaclav (tramutatosi, per la sua incompetenza nell'arte della magia, in un lupo mannaro; poi guarirà, comunque), rimangono nel mondo dell'Ariosto.

Nel terzo libro, "Il muro dei serpenti", Shea e Belphebe ritornato in sé, partono alla ricerca di un mago abbastanza potente che permette loro di tirar fuori Bayard e Pete da Xanadù; per far ciò prima si trasferiscono nel mondo dell'epica finlandese, nel Kavevala, sperando di incontrare il grande mago Vainamoinen ed imbattendosi, invece, in Lemminkainen, mago piuttosto cattivello, che, comunque, li aiuta, facendo apparire i due ricercati.

Alla fine, dopo un altro spostamento, i quattro si ritrovano dove Shea voleva andare originariamente, ovvero il mondo della mitologia irlandese, o meglio, vi si ritrovano solo in tre, poiché di Walter Bayard si perdono completamente le tracce in Irlanda: "-Dov'è l'altro?-..." ;"...Walter dovrebbe essere qui, ma sembra che sia atterrato da un'altra parte"; dopodiché non ne se ne parla più, né tanto né poco.

Alla fine Pete vorrebbe rimanere, ma Shea, con le buone o con le cattive, lo convince a tornare nell'Ohio.

Decisamente la migliore di tutte le opere di De Camp, anche questa, come "Le dimensioni del sogno" e "La terra dell'impossibile", è stata scritta in collaborazione con Fletcher Pratt. Opera parecchio corposa (circa quattrocentocinquanta pagine), ha la caratteristica di essere narrata, direi, in tempo reale, ovvero seguendo le gesta dei protagonisti passo per passo, con una coerenza interna molto buona.

Al di là delle pseudo spiegazioni scientifiche del primo capitolo, l'interessante del romanzo stà, prevalentemente, nella mescolanza tra elementi seri ed elementi umoristici, ed in questo senso, di sottofondo all'intera narrazione vi è un tenue sostrato ironico, che mi sembra di potere individuare nell'avvicinare e in un certo senso comparare psicologia e magia.

Praticamente quel gruppo di psicologi, una volta sbarcati in un'altra dimensione diventano maghi, ovvero, la psicologia non è altro che la magia del nostro universo spazio-temporale.

E l'altro elemento?

C'è, e come no! Sfatare, direi, è l'elemento serio del romanzo.

Non vi è pomposità, nelle descrizioni di maghi e magie, nessun tipo di atmosfere lugubri, anche quando ci sono di mezzo i maghi della fazione nera, al contrario, direi, di quanto avviene nell'opera, ad esempio di R.E. Howard.

Che risultato si ottiene in questo modo? Quello di rendere molto più magiche quelle magie, ovvero molto più credibili, molto più vicine al reale.

La naturalezza con cui Shea diviene incantatore, per quanto incompleto, fa sì che ci si possa identificare con lui più facilmente; è un qualche cosa che gli arriva così, senza che lui faccia nulla per impadronirsene; arriva nell'altro universo, e la sua professione di psicologo lo fa automaticamente diventare mago.

E gli si crede, perché è umano, perché reagisce a quegli avvenimenti esattamente come farebbe ognuno di noi.

Certo De Camp e Pratt fanno di tutto per cercare di mantenere su binari accettabili tali fantasie, ovvero non sconfinano certo in estrapolazioni e speculazioni di tipo epistemologico come, ad esempio, faceva Philip Dick nei suoi romanzi di universi paralleli (vedi "Vedere un altro orizzonte").

Altro elemento interessante, è la digeribilità degli avvenimenti narrati; dicevamo, a proposito de "La torre di Goblin" e di "Jorian di Iraz", della loro non buona riuscita, dandone prevalentemente la colpa all'eccessiva mole di avvenimenti descritti; qui, senza dubbio, i fatti narrati sono molti di più, ma, appunto, molto più pianificati, molto più comprensibili; più logici, per quanto questo termine possa sembrare, in questo ambito, un paradosso.

In quanto alla piacevolezza, vorrei dire che a me, personalmente, il secondo libro è risultato il meno gradevole, mentre la prima metà del terzo la migliore; sarà forse che "L'Orlando furioso" non l'ho mai letto e che "Finlandia" mi ispira? Mah.

Io, comunque, mi ci sono divertito (magari alla fine ero un po' stufo... è lunghettino si), e ve lo consiglio proprio.

Parliamo ora dell'ultimo romanzo di cui ci interesseremo: "Creatori di continenti" (The Continent Makers and Other Tales of the Viagens, 1971) (11), che, come si può facilmente notare dal titolo originale, è, più che altro, un'antologia di vari racconti e romanzi brevi tutti concernenti lo stesso sfondo.

Questi testi contenuti; i racconti "I denti dell'ispettore", "Collezione estiva", "Finiti", "Il dio terrestre", "Il complotto delle gallette", "Il blues del marinaio" e "Moto perpetuo", più il romanzo "I fabbricacontinenti", da cui al titolo originale.

Il romanzo e i primi due racconti narrano storie, direi a sè stanti, mentre gli altri cinque racconti hanno una proprietà che li accomuna, ovvero tutti sono basati su un qualche tentativo più o meno banditesco di aggiramento di una legge del governo terrestre che vieta di mettere a conoscenza società aliene arretrate dei ritrovati della tecnica terrestre. In ogni modo, quello che maggiormente risalta in tutti questi testi è il fattore umorismo, di cui De Camp fa larghissimo uso; si tratta di un humor il più delle volte non diretto, ma più che altro strisciante, nel senso che il sorriso non è che sorge da battute esilaranti piazzate qua e là, ma dall'insieme delle vicende che, in ultima analisi si dimostrano, appunto, piuttosto umoristiche.

Lo sfondo comune in cui si muovono queste vicende è un futuro piuttosto remoto (dalla metà del XXI° sec. alla metà del XXII°), in cui sulla terra, dopo la terza guerra mondiale, la nazione più potente è diventata il Brasile, e nel quale si conoscono e si hanno contatti con più di una forma di razza aliena.

Il racconto che mi è più piaciuto, personalmente, è "Il complotto delle gallette"; e con questo è tutto per quanto riguarda "Creatori di continenti".


Per concludere, vorrei per lo meno elencare le opere lunghe del Nostro facenti parte della sua produzione improntata al proseguimento ed ampliamento dell'opera di R.E. Howard.

Il romanzo "Conan il bucaniere" (12) lo ha scritto lui in collaborazione con Lin Carter, così come "Conan il liberatore" (13). Nel volume "L'era Hyboriana" di Conan il Cimmero" (14) sono compresi il romanzo "Conan the Avenger", scritto in collaborazione con Björn Nyberg e "Conan of the Isles", scritto con Lin Carter, oltre all'antologia, sempre con Lin Carter, "Conan of Aquilonia".

"Conan il barbaro" (15), è un'antologia di racconti di De Camp e Carter.

Oltre a ciò, poi, vi sono altri racconti di De Camp pubblicati in vari volumi della Fantacollana intitolati, erroneamente, al solo Howard. Senza stare a nominarli tutti, che non mi sembra proprio il caso, si può dire che De Camp ha scritto ben diciotto racconti della saga dell'eroe Hyboriano collaborando con Lin Carter, più tre collaborando con Nyberg, oltre che aver completato otto racconti lasciati incompiuti da Howard; tutto ciò, naturalmente, oltre i romanzi sovracitati.

Con questo, cari amici, mi sembra di poter dichiarare conclusa la mia carrellata sull'opera di Lyon Sprague De Camp.


NOTE-CRITICHE

1) C. Oro n. 4 Nord '72-trad. di R. Prinzhofer. Pubblicaz. originale su Unknow Dic.1939; correlati critici: "L.S. De Camp", Sam Moskowitz

2) Galassia 146, '71 trad. di R. Rambelli; correlati critici: Presentazione di R. Rambelli

3) Class. Fantascienza n. 23 Mondadori, '79-trad. P. Dalloro

4) Saga 17 ed. Meb '77; trad. M. Maiocco-corr. critici: "Un americano del Michigan alla corte di re Oberon" di Lin Carter

5) Saga 18 ed. Meb '78; trad. M. Matossi L'Orsa

6) Fantacollana n. 2 ed. Nord '73 trad. Riccardo Valla-correlati critici "Introduzione" di R. Valla

7) "Tempo senza tempo" Pocket Fantascienza 524 ed. Longanesi '75-trad S. Schumpler

8) Fantacollana (n. 1 della ex "Arcano") Nord, '71; trad.R. Valla e G.L. Staffilano; corr. critici: "Presentazione" di R. Valla

9) Fantacollana n. 6 Nord '74; trad. G. Tamburini; corr. critici: Presentazione di R. Valla

10) Fantacollana n. 11 Nord, '75 trad. G. Averso; corr. critici: "Introduzione dell'autore: le storie di Harold Shea", di De Camp

11) I libri di Robot n. 13 Armenia, '79; trad. F. Giambalvo

12) Fantacollana n. 41 Nord, '82; (Conan the Bucaneer '71)

13) Oscar S.f. n. 29 Mondadori, '81 (Conan the Liberator, '79)

14) Fantacollana n. 40 Nord, '81

15) Oscar S.f. n. 28 Mondadori, '81 (Conan the Swordman),'78)


I dati numerici sui racconti di De Camp sono tratti da: "Bibliografia di R.E. Howard" di E. Vegetti, pubblicata in occasione del Fantasticonan di Borgomanero.

I dati bibliografici sulle altre collaborazioni sono invece tratte da "Conan il Cimmero, da Howard a De Camp" di R. Pea LSS 3


Altri contributi critici: "Alla ricerca dei Mondi Perduti" R. Fabiani-La bottega del fantastico n. 4 pag. 7 (Il castello d'acciaio); pag. 9 (La terra dell'impossibile)

"Mondi a richiesta S.p.a." di G. Raimondini-La bottega del fantastico n. 4; pag. 10 (Il castello d'acciaio)






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