Il vecchio che camminava lungo il mare
di Gianfranco de Turris, "Malacandra" n. 28, ed. Tabula fati, 2013, 7,00 €, 64 pagg.
Fantastico, vede un uomo incuriosirsi, in una maniera che pare ad egli stesso inusitata, del comportamento di un uomo che vede da sempre, da quando era bambino, camminare sulla spiaggia che è solito frequentare.
Questi raccoglie qualcosa, qualcosa di piccolo, che non si riesce a distinguere a distanza.
Ma il protagonista riesce a scoprire cosa: piccoli frammenti di vetro levigato dal mare.
Poi chiede informazioni, su di lui, e viene a sapere dove… abita. E, quasi inconsciamente, va da lui.
È una stamberga costruita con ogni cosa, e il vecchio lo inviterà ad entrare, dicendo che lo stava aspettando.
Dentro, infiniti sacchi, scatole, recipienti di ogni tipo, con quei frammenti di vetro. E un puzzle molto particolare; un paesaggio fatto unicamente da quei vetri, che suscita in lui un sentimento fortissimo: "… averlo osservato mi aveva provocato un tuffo al cuore: mi era salita dal profondo come una nostalgia terribile per qualcosa di perduto, per qualcosa di bellissimo e fondamentale che una volta poteva essere mio e stupidamente avevo respinto." (pag. 27).
Era il passaggio per l’Altra Realtà di quell’uomo, che l’aveva ricostruita pezzetto per pezzetto, sapendo che, quando fosse stata completa, gli avrebbe permesso di accedervi: "Questo "paradiso"… coesiste con noi e la nostra vita di ogni giorno, ma noi lo abbiamo "perduto" perché la Realtà ci induce a dimenticarlo e quindi a non preoccuparci più di raggiungerlo. Esso viene inesorabilmente sepolto dagli eventi quotidiani, dalle banalità, dalla vita corriva che conduciamo, dall’abitudine che soffoca ogni slancio, dall’incredulità, dallo scetticismo. Si perde – e non solo nel suo ricordo, ma nel suo essere reale e nella possibilità di accedervi – man mano che si cresce, che si passa dalla fanciullezza, alla giovinezza, alla maturità. Man mano che diventiamo preda di altre preoccupazioni, succubi di altri problemi, schiavi di altre mete." (pagg. 29-30).
La propria autenticità, il contatto col proprio Io profondo, che si perdono quando dobbiamo metterci la maschera del sociale per poter stare nella società.
Quando si scindono inesorabilmente, la nostra interiorità e la nostra esteriorità, in molti casi fino alla completa scomparsa, dell’interiorità, fino ad essere solamente apparenza, solamente la nostra maschera del sociale, che diventa, unica, ciò che siamo, che ci percepiamo essere.
E "… non è la mitizzazione della nostra infanzia (ma)… un luogo vero, in cui ci si realizza pienamente, in cui si è alfine sé stessi…" (pag. 30).
Se si riesce a far sopravvivere, in noi, anche un piccolo frammento della nostra interiorità, del nostro essere fanciulli, di quel nucleo incontaminato dalla società, allora potremo vivere la nostra vita molto più pienamente.
Il racconto, nel quale il vecchio, per seguire quella ricerca, è "uscito dal mondo", sembrerebbe voler dire che l’unica possibilità di perseguire quel fine sia appunto quella.
Mentre, mi pare, sia una cosa che anche chiunque possa fare, magari più difficoltosamente, restando, nel mondo.
Il volume, originariamente in "La lampada di Alhazred" n. 7, ed. Solfanelli, '90, è completato da una "Postfazione. In viaggio verso l'altra realtà", di Andrea Scarabelli (pagg. 47-52), una "Nota dell'autore" (pagg. 53-55) e un "L'autore" (pagg. 57-60).
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