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Dick Philip K. - In questo piccolo mondo

(Puttering About in a Small Land, ’57, ‘85), di Philp K. Dick
“Collezione Dick” n. 17, ed. Fanucci, 2003
edizione originale: (Academy Chicago, ’85, poi ‘92), poi (Paladin, ’87)
traduzione di Simona Fefè
346 pagine, 14 €


“Il più riuscito tra tutti… (i romanzi mainstream di Dick)… quello che già all’epoca meritava di essere pubblicato…” (L. Sutin, “Divine invasioni”, pag. 115), racconta, quasi antiteticamente a quelli Sf, forse La storia per antonomasia, il plot più raccontato: l’adulterio, lei e lui, e l’altra, insomma.
Ciò che più lascia sconcertato chi abbia letto il Dick fantascientifico è la descrizione della quotidianità, di taglio quasi neorealistico; minuziosa, attenta ad ogni più, sembrerebbe, insignificante particolare.
E ciò che ne esce, è, ancora, la visione grigia che Dick aveva della realtà; un “piccolo mondo” nel quale nessuno ama veramente, e nel quale le meschinità umane la fanno da padrone assoluto: “Nessuno ama nessuno in questo secolo, nessuno prega o sventra i gabbiani per esaminarne le viscere e prevedere il futuro…. Tra poco saremo tutti scomparsi.” (pag. 242), dove l’ultima frase non è una cassandra sul destino dell’umanità, ma un dire della vacuità dell’agire umano.
Uno spazio “…dove ometti lillipuzziani si aggiravano in preda a una radicale malattia, la stanchezza: quel senso di inutile sforzo…di formiche operaie che saranno spazzate via comunque.” (Montesano, “Postfazione”, pag. 339).
E, questo palcoscenico, può, ad un certo punto, rivelarsi per quello che è, farsi vedere nella sua reale realtà; che è, ovviamente, terrificante: “Si immaginò circondato da truffatori e imbroglioni di ogni sorta; sollevò lo sguardo sugli uffici e sulle attività illecite che vi si svolgevano, gli ingranaggi, i meccanismi….vide il mondo intero fremere e riempirsi di peli, un mostruoso globo irsuto che esplodeva lordandolo di sangue…” (pagg. 134-5); come non ricordare i “kipple”, il “putrio”, quel “brutto” che irrompe, e porta alla distruzione la realtà?
Ancora il Sutin ci dice che la figura di Liz, la moglie che si innamora di un marito non suo, svampita e sanguigna, gli è stata ispirata da un’amante, la prima che ebbe, mentre era sposato con la prima delle sue molteplici mogli, Kleo, nel ’57, proprio l’anno in cui cominciò quest’opera.
Ad un certo punto, quando ormai gli amanti sono stati scoperti, le frasi stereotipate con le quali lei si rivolge all’amante, gli fanno fare, a lui e a Dick, queste considerazioni: “Un modo di dire… I luoghi comuni che aveva carpito qua e là, dai libri, dai film, dalla TV o dalle riviste…. Le sue parole. Le parole di tutti. Vacuità deliberate, preparate in anticipo. Come se stesse ascoltando la lettura a voce alta dell’editto di qualche municipio. Come un gruppo di persone che vanno avanti senza fermarsi, con la testa vuota, scegliendo le frasi. Che le recitano tra di loro con voci fredde.
Alla fine avevano mandato lei a consegnargliele; Liz era il loro galoppino.” (pag. 272), in cui, ancora, c’è quel disprezzo per la vuotezza della cultura di quei tempi, a cui si sentiva immensamente avanti, ma, anche, quel larvato senso paranoico di qualcosa/qualcuno che manda a dire.
Sutin fa anche notare, cosa che comunque si evince molto facilmente, che Roger, il lui traditore, ha molto di Dick, ma anche di suo padre, così come suo figlio, infatti, è l’asmatico per il quale l’esperienza scolastica è stata sia importante che difficile come lo è stata per l’autore.
E l’amarezza per una vita sentita scialba, priva di reale significato, colma, apputo, unicamente di umiliazioni, che era sua, è, quindi, anche di lui: “…piangere grandi lacrime di umiliazione.” (pag. 168); così come quella che i biografi hanno individuato come una delle più macroscopiche caratteristiche dell’autore: “Non è facile capire se stai dicendo la verità.” (pag. 82).
Montesano, nella postfazione dice, molto bene, di come la scena madre, nella quale la sposa tradita coglie sul fatto gli adulteri, veda questa trasformasi in una figura materna incombente e castigatrice, e lui regredire ad uno stadio infantile (“Non lo farò più”); così come Sutin dice che, in lei, c’è molto di Dorothy, la madre di Dick.
Altri punti di contatto fra la poetica dickiana e quella di questa, come abbiamo capito, assolutamente anomala sua opera, li si possono trovare, uno in quella che mi è sembrato il brano più significativo dell’intera opera, il 17° capitolo, che è una sorta di scombussolato, come scombussolata era, appunto, la mente di Liz, frivola e frizzante, saltellante e sconclusionata, andare per sentieri di pensieri spezzettati, tutti legati al sesso come possessione, impossessamento della persona amata; nel quale, ad un certo punto, pensa a come sarebbe stato, a come avrebbe potuto essere, se lei e lui si fossero conosciuti prima di, rispettivamente, sposarsi, che ricorda molto i ricordi posticci, fasulli, degli androidi di “Do Androids…” e di altre sue opere.
E quando, ancora Liz, in un impeto di… felicità irresponsabile, vuole dire di loro a tutti; ma le sembra che nessuno la ascolti: “Abbiamo perso ogni contatto con gli altri, vero? Siamo su un mondo a parte. Non possono sentirci e noi non sentiamo loro…. Potrei fermare chiunque e non mi sentirebbe.” (pag. 279), in cui, penso palesemente, ritroviamo, almeno in parte, quel pensiero, così terribile, di Dick dell’Uomo, un po’ laibnizianamente, realmente isolato, solo nel mondo, senza possibilità di reale comunicazione coi suoi simili.
Questa visione del mondo intrisa di un nichilismo più di oggi, che degli anni nei quali fu composta quest’opera, viene detta bene in un passaggiodel 12° capitolo, frammentato fra dialoghi e pensieri: “Non siamo mai certi di nulla. Almeno fino alla morte. E forse neanche allora.
Stiamo tutti quaggiù ad agitarci, a presupporre e calcolare. A fare del nostro meglio.” (pag. 182); “Non c’era modo di sapere neanche quello. Né di sapere niente per certo. Scorci confusi. Possibilità. Cenni, indizi…” (pag. 186).
Quest’ultima frase la pensa a proposito di un sintomo paranoico, per così dire, della percezione; solo nel suo negozio, sente un rumore, un sibilo, che la sua immaginazione trasforma e riempie, di un significato che non ha; cosa di cui è consapevole: “…l’interfono…sibilava. Quasi quasi ci sentiva qualcosa, pensò…. Inventi…poi consolidi finchè l’invenzione si trasforma in realtà…. Hummmmmm, gli diceva il mondo. Da tutte le parti. Ovunque. Sibili e ronzii. Che cercavano di raggiungerlo, di parlargli.” (pagg. 184-6); forse, dunque, il nichilismo assoluto: ciò in cui crediamo, che siamo giunti a credere, null’altro è se non il depositarsi, nella nostra psiche, di stimoli esterni che ne assumono, di significato; ma che non ne hanno.
Significativamente, però, quel sibilo ha termine quando riesce a rapportarsi a Liz: “…recitarono le voci nella sua testa. Non ronzavano più; parlavano.” (pag. 192).
Per finire, ho rilevato vari punti nei quali, in quest’opera mainstream, ci si ricollega, in un qualche modo, alla letteratura fantastica; già nel primo capitolo, al passaggio in un’area coltivata, Virginia, la lei tradita, ha una sensazione: “Gli aranci erano talmente bassi che le parve di attraversare un mondo in miniatura; quasi si aspettava di imbattersi in casette di canditi e in minuscoli vecchietti con le lunghe barbe bianche che scendevano fino a toccare le scarpe con le punte all’insù.” (pag. 27); poi, molto oltre, ecco che i figli di Liz (che, si, ha ben due figli), leggono fumetti horror: “Racconti della cripta…fumetti dell’orrore. Questa roba…Arriva dappertutto. In tutto il mondo. È un gran giro d’affari… È vero che un cadavere può rianimarsi e indicare il suo assassino? Lo dice qui. Assurdo.” (pagg. 173-4), in cui potrebbe poter leggere la consapevolezza, di Dick, della fruttuosità dello scrivere Sf; e, ancor più oltre, in quel 17° capitolo un po’ stream of consciousnes di cui abbiamo detto, Liz fantastica anche un’…alternativa…fantasy, della loro storia: “…un giorno lui stava pescando e cadde nell’acqua, giù fino in fondo, lontano da terra. Visse con la principessa che era una tartaruga. Il pescatore e la tartaruga.” (pagg. 252-3).
Dunque, già alla fine degli anni ’50, Dick aveva esposto ciò che poi disse, in maniera decisamente più divertente, in tanti sui romanzi Sf; la possibilità dell’Uomo di superare, nichianamente, la sua condizione, stà nell’afflato, nell’empatia che può avere verso gli altri.

Il volume è corredato da un’ottima introduzione, di Carlo Pagetti, “America, automobili e adulteri", e dalla postfazione citata di Giuseppe Montesano, “Lo strano caso del probo Philip e del cattivo Dick”, e da utili note a piè di pagina.
Di quest’opera ha parlato anche Carlo Formenti: “I borghesi “piccoli piccoli” di Philip K. Dick”, “Corriere della sera” del 2 novembre 2003; e, non tradotto, Debbie Notkin, “Locus” vol. 18:8, n.295, agosto ‘85

Aggiunto: December 24th 2004
Recensore: Marcello Bonati
Voto:
Hits: 1532
Lingua: italian

  

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