- È ora di alzarsi,
- dice lei.
- È ora di alzarsi?
- chiedo.
- La mezzanotte. L'ora più
sacra. - Apro gli occhi a fatica; ancora non sono pronto; il buio è
fondo, però posso scorgere Ombra accanto a me; mezzanotte, come
nei racconti; quando noi morti ci destiamo, direbbe Ibsen... Quando
noi morti ci destiamo, sì, e di cosa ci accorgiamo? Ci accorgiamo
di non aver vissuto mai!... mai... e quando mai abbiamo vissuto? Mai...
a mezzanotte, solo allora possiamo rivivere... ridestarci...
Ci alziamo. Ci vestiamo.
Siamo pronti ad uscire, con tutta la sacralità nera della nera notte.
Noi... i morti.
Poi fuori, nella tenebra
esterna.
Dove i lampioni sono una
fioca luce; e i fari delle rade auto che passano piccoli lumini.
Fuori, dove tutto è
silenzio.
Quando chiudo la porta,
io e Ombra siamo finalmente fuori, allora m'accorgo che l'aria è
intessuta di miriadi di sottili fili neri, di nidi di ragni e scintille
bluastre che improvvise scoccano nel silenzio.
- Dove andiamo? - chiede
Ombra, e rabbrividisce, e si stringe a me.
- Non so. Non so.
Camminiamo in silenzio,
lungo la strada. I nostri passi immateriali ridestano eco sepolti. Qualche
scintilla splende nel buio, ora sullo sfondo del muro, ora di fronte al
nulla. Ragni e fili sono ora moltitudini.
Entriamo nel garage. Vuoto.
Nell'aria si sente un miagolio
indistinto, sempre più fioco.
- Cos'è? - Ombra
si guarda attorno nell'oscurità, cercando di comprendere dove sia
celato l'essere che miagola.
- Un gattino. La madre lo
nascose qui, nel garage, e poi non riuscì più a ritrovarlo.
Lui cadde da quell'impalcatura dove era stato deposto, - indico le travature
metalliche, sopra la lunga fila delle auto. - E restò a miagolare
da solo, finché non morì.
Saliamo in moto. Accendo
il motore. La luce fioca del fanale illumina il pavimento di mattoni e
le chiazze d'olio: la luce ricompone il gattino di fronte a noi, e i suoi
miagolii riprendono d'intensità; Ombra mi stringe; io infilo la
marcia, schiaccio il fantasma che si smaglia in mille falene bluastre e
il miagolio ritorna ancora più fioco, più vuoto.
Usciamo fuori.
La città comincia
ad animarsi.
- Mio Dio, - mormora lei.
- È orribile; la storia del gattino, voglio dire. L'ho visto, quando
il faro l'ha illuminato. È stato orribile.
- Ci sono molte cose orribili,
- dico tra me e me. - E interminabile è il loro numero. Ma per ogni
cosa, per ogni evento orribile c'è sempre il suo contraltare. È
la legge.
Scendiamo con la moto lungo
la via; il selciato umido, riflette indistintamente i radi lampioni e le
insegne luminose della città che si risveglia; qualche Notturno
è già per la via, e poi, verso il centro, incrociamo qualche
altra moto, qualche altra auto.
Alla curva, ci fermiamo.
Sorrido; laggiù, il fantasma del grattacielo si riflette tra le
mille gocciole di umidità sospese nel tempo; la scritta rossa, Martini;
le lancette dell'orologio; il fantasma appaiato all'originale; sarebbe
forse difficile a chi per la prima volta si trovasse di fronte a quel fenomeno
discriminare, quale il vero e quale il falso...
- Ehi, piccola, guarda laggiù.
- Punto l'indice della mia mano che s'intreccia tra le ragnatele verso
le due immagini - Ti ricordi?
Ombra ride. Mi carezza i
capelli con una mano.
- Quanto tempo è
passato?
- Chi lo sa? Un anno? Due?
Un giorno?
Fermiamo la moto in piazza.
La città si sta animando;
diversi Notturni cominciano a sciamare per i marciapiedi, diverse auto
baluginano fra le falene e le ragnatele assumendo la forma delle gocciole
in sospensione.
La vita ricomincia.
Entriamo in un bar, a prendere
qualcosa.
- Buona Veglia! - dice il
barman.
Sembra un libro di Juan
Rulfo. O una commedia di Samuel Beckett. O un romanzo di Philip Dick. Ma
al contrario, questa è la vita reale. Eppure mentre cammino assieme
ad altri Notturni verso la musica delle tenebre, in quel teatro che poc'anzi
Ombra ha scorto e vuol sentire cosa si suona, mi ritrovo a pensare che
più che la realtà della realtà sia questa l'immagine
dell'Abissale.
Non può esser vera...
non reale... tutta questa situazione, e questo mondo. Lei, Ombra, essendo
molto più giovane di me appartiene a una generazione che può
scegliere ancora tra la luce e le tenebre; ma io, e tutti gli altri come
me invece... noi apparteniamo al buio, alla notte. Non possiamo che vivere
nelle tenebre; noi, i Notturni. Come diceva San Giovanni? Gli uomini
preferiscono le tenebre alla luce? Oh, tu che sei il Battista, scendi
dal tuo empireo dorato... tu, Esseno degli Esseni, tu Lucifero, scendi
in quest'Ade fumigante e vieni con ad adorare l'Abissale; e dimmi se davvero
siamo noi a preferire le tenebre, e non esse ad invocarci...
Ed ecco che giungiamo al
teatro; l'insegna rossa è pallida ai nostri occhi; fioca luce, fioco
chiarore; l'interno è buio ma i nostri occhi forano le tenebre perché
ad esse sono abituati; il teatro è vuoto; solo voci che sussurrano,
e questa è la musica delle tenebre...
Qui l'Abissale si manifestò
per una volta ai nostri occhi; e ora è il giorno dell'Avvento...
odi le voci dei morti?
Ancora non riesco ad abituarmi
a questa litania. Per Ombra, che pure rabbrividisce ascoltando il lamento
del gattino moribondo, le voci dei morti non suonano come moniti o ricordi,
ma come soave melodia, come purissimo suono; vedo attorno a me altri della
sua razza; ma per noi che viviamo solo ed esclusivamente nelle tenebre,
questi suoni ci freddano, questa musica ci ghiaccia, questa sinfonia della
morte diventa l'ultima Totentanz da ascoltare; e chi di noi avrebbe
mai il coraggio di rivelar loro la verità?
Ecco il suono; ecco la matrice
primaria; Ombra sembra ipnotizzata; altri visi come il suo incantati; altri
volti come il mio spauriti; noi che sentiamo quella musica... ma come spiegare
cosa veramente dice? Eccola, l'ascolto...
Dice che bella giornata
che è oggi. O mi passi una sigaretta? Ascolta, domani sera che fai.
Ascolto anch'io. Che bella ragazza, laggiù. Quanti anni potrà
avere? Carlo mi ha telefonato, stamane. Mi ha chiesto di uscire. E cosa
gli hai risposto? Non lo so. Ehi, volte, mille volte, mille parole: ascolto,
ascolto e non parlate? Continuano. Continuano. Una voce. Mi passi l'accendino?
Non sono andata a scuola. Andiamo al cinema domani sera, c'è un
nuovo giallo, come si chiama, aspetta, ora mi viene in mente. Ma poi cosa
succederà? Non ne ho idea. Luisa, hai studiato Foscolo?
E lontano... sorride, l'Abissale...
Nell'aria ascolto il silenzio.
Poi un rumore lento, come
il crepitare di una fiamma, come il suono dolce della melanconia; un suono
che rotola buio, nel mio buio; in un momento in cui nulla e nessuno può
indicarti cosa fare, cosa dire, come uscirne.
- Hai sentito?
La sua voce mi strappa dall'immobile
contemplazione della solitudine, di un punto di ignota latitudine e di
longitudine ignota che trascolora sempre di più, come il margine
lobato di quelle piante in giardino che la pioggia sembra cancellare.
- Cosa?
- Questo rumore?
- Lo sento anch'io.
- Cos'è? - La sua
voce, nelle tenebre, sembra più incuriosita che timorosa; ma neanche
ora c'è un modo o una parola di troppo.
Il rumore continua. Non
tace. Si ripete. E non succede nulla, per nessuno.
- Vado a vedere.
- No. Resta qui. - Mi pare
come una nota d'apprensione nella sua voce; lei, forse, non vorrebbe che
m'allontanassi in quel momento; ma dove, e per dove? Nel labirinto del
triste vittoriale non c'è nessuna possibilità d'uscire, non
c'è nulla che contempli, fra i tanti, l'incanto dell'evasione.
Le lancette delle ore brillano
come radioattive di una strana luminescenza verdastra. L'aria fresca della
notte che entra dalle finestre mi copre come una folata di vento. Adesso
tutto è lontano. Sono circa le quattro del mattino. È freddo.
Dopo la mia camera il freddo mi preserva dalla fine.
Cammino nel corridoio. Il
rumore persiste, ma solo a stento lo odo. Nel buio ogni misura si perde,
e non resiste più che per un solo attimo. Avanzo faccio qualche
passo avanti. Non ci sono più le ragnatele ma solo il buio.
Il rumore è a sinistra,
verso la cucina.
Potrebbe assomigliare al
gracidio sciocco del telefono, quando il duplex avverte che qualcuno sta
chiamando il vicino; ma nessuno può comporre il numero, buttar giù
e all'infinito richiamare...
Entro in cucina. Continua
il rumore. Vorrei accendere la velata luce del neon; ma se di colpo un
fiotto di luce cruda, di dura luce bianca illuminasse improvvisa la stanza
immagino che tutto l'incanto (o il maleficio) finirebbe privando la mia
vita di quell'attimo di timore che ancora esiste; e non c'è niente
che non si leghi, meno del timore, a quell'istante perduto nel buio, nel
silenzio.
La voce di Ombra, in camera
da letto: - Che cosa c'è? Hai trovato nulla?
Il rumore che continua,
come se un cucchiaio di metallo d'un anonimo abate Faria scavasse contro
la calce e i mattoni della parete. I miei piedi scalzi che scivolano quasi
senza far rumore sul mattone crudo.
Lei c’è. La vedo,
tornata dalle scure porte del Grande Nulla senza un motivo o una ragione,
e solo perché il suo desiderio di tornare è stato più
forte d'ogni altro vincolo o legame che Dio o il Diavolo abbiano mai potuto
creare per tenerci... ma dove?
Lei c’è, ed è
tornata dalla morte.
La pioggia notturna ora
è cessata. Immagino che un forte vento abbia spazzato il cielo,
o forse è solo uno squarcio nelle nubi da cui filtra l'incanto adamantino
della luna.
Lei c’è. La vedo.
Il gatto sta mimando il gesto di graffiare il suo inesistente tronco per
le unghie.
Si dice che i morti ritornino,
e che il loro tornare abbia un significato che noi non riusciamo a comprendere.
Muchacha è nera, le sue forti unghie raschiano contro un tronco
che non c’è più da chissà quanti anni e il vuoto del
suo corpo occupa uno spazio che a malapena intravedo; quando ode il mio
passo, volta il capo verso di me e i suoi occhi gialli nel buio si dilatano.
Perché è tornata?
Perché è ancora qui? Cosa significa ora la sua presenza,
lei... morta da tanti anni?
Smette di graffiare il legno.
Se i gatti, o i loro spettri,
avessero la facoltà di comunicare con il sorriso, allora direi che
Muchacha stia proprio sorridendo.
È un attimo. Mi guarda
ancora, mentre m'avvicino; poi frusta i fianchi con la coda, si volta ancora
e dalla porta socchiusa esce in giardino.
M'avvicino; avevo ragione,
c’è uno squarcio in quell'arazzo cinerino di nubi e da quello strappo
batte forte la luce della luna che illumina ora la gatta che è sulla
rete che cinta il giardino, verso la strada; ma solo un istante; lo strappo
si richiude e Muchacha scompare nel buio.
Non dico nulla ad Ombra.
Muchacha è mia, e come tutti i sogni appartiene solo alla mia solitudine.
Mi reinfilo fra le lenzuola.
- Cos'era?
- Nulla. La grondaia rotta.
Deve esserci un intervallo
nel buio che offuschi le tenebre, e che per un istante faccia tornare il
giorno; ma temo cosa potrebbe succedere se quel giorno brulicasse nuovamente
alla mia faccia; eppure ricordo l'Abissale quando si manifestò per
la prima volta, nel martirio della mia mente quella sera in cui tutto l'alcool
che avevo bevuto nella mia vita di colpo tutto assieme salì - salì
al mio cervello, trascinandomi in braccio al buio.
Per questo temo ogni momento
prima della luce.
Per questo ho dentro di
me un'indicibile paura, un oscuro terrore di quel momento all'alba in cui
l'equilibrio perfetto tra tenebre e luce potrebbe uccidermi o dissolvere
il mondo che conosco...
Alle volte, come molti Notturni,
esco per la città da solo e solo cammino come un viandante senza
meta. Mi rivedo con gli occhi della mia immaginazione, il viso bianco,
i capelli più scuri di una volta, il cappotto blu con il bavero
rialzato e non una traccia di colore su di me. Mi scorgo insonne camminare
a fianco dell'infinito, un livello superiore ai Diurni che ora dormono
la loro esistenza che io non posso percepire; e quando mi trovo, che so,
in una via od una piazza che ricordo piena di vita il giorno e morta la
notte non posso fare a meno d'immaginare l'esatto e speculare rovescio...
Poi s'avvicina all'alba
il buio; e in preda ad una strana frenesia vorrei restare in quell'attimo
prima della luce fuori, all'aperto, per scorgere i mille volti dell'Abissale...
Un momento solo. Una lenta
vibrazione che scuote tutto il tessuto della realtà. Cosa c’è
oltre alla luce? Vorrei scorgere le sue trame, più lontano ancora.
Le mille ragnatele che esplodono ed ogni filo incantato di quel neuronico
telaio si muove come un vettore verso l'infinito; io mi trovo per la strada,
ed il buio si dirada e arretra ferendo i miei occhi; un livello più
sotto di noi, le voci dei Sospesi parlano e parlano e nessun registratore
ad infrasuoni potrà mai coglierne il senso...
Ricordo quando Jurgenson
prima, e poi Raudive, iniziarono a registrare le "voci dei morti"...
Ricordo quando la Halifax,
dopo le esperienze della Kuber-Ross iniziò ad usare l'LSD 25 per
agevolare il "distacco"...
Chissà se anche loro
parlano, adesso; e nessuno li ascolta?
Il corpo bianco di Ombra
si muove sotto di me mentre facciamo l'amore. La pioggia fuori scroscia
sulle persiane, rimbomba sulla tettoia metallica del giardino, flagella
instancabile le piante verdi che s’intravedono, a sprazzi, dopo l'offuscarsi
dei vetri.
Ignoro che ore siano. Non
importa. Fuori è buio.
Ombra m'accarezza la nuca;
quando chino il capo, vedo il suo volto sotto di me e vorrei allora perdermi
nel vuoto, nel buio, nell'indefinito.
Nell'oscurità della
stanza mentre ascolto il suo respiro che brucia alle mie orecchie più
di quelle faville bluastre che specchiano i segmenti delle mie iridi nell'aria,
che esplodono di fronte ai miei occhi stanchi come immagino anch'io di
poter esplodere come una cometa fiammeggiante una nova incandescente in
una pioggia furiosa di scintille - e quando il buio s'avanza e sento d'esser
dentro a Ombra, sento le sue mani che mi carezzano la schiena e le sue
labbra che sfiorano le mie e tutto procede lento, interminato e interminabile,
come se il tempo rarefatto stesse correndo lungo un'asse senza fine...
Poi tutto giunge al termine
di questa corsa. Il tempo finalmente esplode. Buia vertigine...
E prima che la vita riprenda
il suo ininterrotto fluire, c’è il corpo bianco di Ombra, dietro
il viso della Grande Cancellatrice, il buio - c’è quel corpo che
sempre riesce a darmi quella strana vertigine che non vuol cessare.
Restiamo uniti, avvolti
in qualcosa di nuovo, in silenzio.
Lei, sorella delle nube,
lei il respiro che rallenta e s'adagia il suo corpo bianco in un respiro
più lento, più morbido, più stanco. Cento volte potrei
fare l'amore; e per cento volte ogni volta sarebbe diverso.
Intanto fuori la pioggia
geme. Il corpo di Ombra, da quella bianca chiarità che scorgo attraverso
il buio è diventato cielo notturno...
- Proprio come quella
volta che mi riaccompagnasti a casa, e il miraggio delle luci del grattacielo
Martini brillava a destra del tetto, come in un velo di pioggia...
Immagino ora queste parole,
questo ricordo.
Ombra tace. Quell'immagine
pluviale e fantasmatica è lontana. Non c’è nessun miraggio.
La linea dell'orizzonte è il suo corpo, disteso di fronte a me e
perpendicolare al mio; la sua schiena, le sue reni, i suoi glutei e le
sue gambe, l'incavo del poplite, il polpaccio, la caviglia - limiti e segni
di un paesaggio sensibile che nessuna geografia dell'erotismo può
descrivere. Se solo volessi spostarmi, più oltre potrei discernere
il limite bianco da un lato riflesso dalle gocciole d'acqua sul vetro della
finestra, dall'altro le mille tonalità del buio a farmi contorno.
- Sorellina, sorella della
nube...
- Dimmi. - Il suo viso è
ora volto verso di me, indugia.
- Nulla.
- Che cosa volevi dirmi?
- Puoi immaginarlo.
- Esplodere nel buio?
- Che altro?
- Forse ci sarebbe un
modo diverso per vivere...
Sotto l'infuriare della
bufera immagino le nubi assumere la forma del corpo di Ombra.
Ombra mi dorme vicina.
Non so cosa stia sognando;
e comunque deve esserci al mondo qualcosa di tanto personale da non poter
esser compreso da nessuno, da nessuno diviso... il sogno.
La guardo ancora.
Prima d'addormentarsi s'era
fatta vicino a me che scrutavo in silenzio il buio; e m'aveva chiesto:
- Hai gli occhi aperti o chiusi?
- Aperti, - ho risposto.
E lei: - Che strano. Hai
gli occhi aperti, ma non vedo il tuo sguardo.
Il buio confonde ogni cosa
ed ogni misura, il buio ci disperde; ma è la nostra unica possibilità,
il buio...
Nel sonno Ombra s'è
rannicchiata accanto a me; il suo respiro è tranquillo, calmo il
suo sonno e sgombra la sua fronte.
Volgo il capo attorno, nella
stanza. Il riquadro bianco del televisore splende, quasi immacolato di
grigio perla; al buio posso discernere le disordinate file di libri che
mi stanno addosso, senza neanche lasciarmi respirare... quante passioni
sprecate, sospiro; e quanti tempi trascorsi ad affascinare la vita, cercando
d'afferrarla per la coda nella cerca di raddrizzarne la caduta!
Laggiù c’è
la mia tesi di laurea incorniciata. Sotto, in uno scaffale, i libri e gli
articoli che ho scritto e i dattiloscritti di tutti i testi che non riuscirò
mai a editare; più oltre le foto; io che corro a piedi e in bicicletta,
io e Fabrizio che attraversiamo sul ghiacciaio del Rutor; la mia moto lanciata
a pazza velocità in un riottoso sentiero pieno di scure pozzanghere,
in un cupo giorno invernale; un'alba livida sui ghiacciai; io e Ornella
che danziamo; una tecnica di rottura di tre mattoni con il taglio della
mano; Ombra che mi sorride a Piazza delle Erbe nella Verona dei tempi addietro...
La notte è quasi
morta; è buia e silenziosa, e profonda.
Mi guardo attorno; Ombra
dorme; mi vengono in mente le sue parole di prima: Forse ci sarebbe
un modo diverso...
No, sorellina... nessun
altro modo nel buio.
E intanto l'alba intanto
sopravanza e s'inarca il cielo, forse.
E lei ora si sveglia ancora
assonnata. - Hai gli occhi aperti, - mi domanda. - O chiusi?
- Aperti. Ti sto guardando.
- Anch'io ho gli occhi aperti,
ma non ti vedo.
Le sfioro la guancia con
la mano, la fronte con le labbra.
Sorride ancora, si riaddormenta.
La sveglia indica le sei.
L'insonnia mi tortura, da
sempre.
E lei, Ombra, non potrà
più vedermi.
È l'ora, la meno
sacra.
I giorni tutti eguali. Le
notti sempre fredde.
Tra poco sarà giorno;
e io vorrò dormire, come sempre, per non vedere cosa avviene nel
giorno e nell'altrove.
Nemmeno Ombra può
vedere. Nemmeno l'Abissale. Nessuno.
Nessuno può vedere
nel buio l'incanto delle tenebre.
Mi alzo. Vado a bere un po'
d'acqua e inghiotto le pillole che mi faranno dormire fino al buio. Dormirò
di un sonno incolore e senza sogni, come un vampiro addormentato o una
fredda lastra d'alabastro su cui sono incise tutte le date del futuro.
Fra poco Ombra si desterà.
Lei che è di un'altra razza può ancora vivere nel buio e
nella luce; si desterà, e nella veglia non potrà ricordare
il buio e la Veglia, i Notturni e la notte; sarà giorno, incontrerà
l'Altro-Da-Me nell'altro mondo, l'Io-Che-Sono-Un-Altro e la sua faccia
forse le ricorderà la mia e si chiederà che spazio ci sia
nei suoi sogni per lui-me, per noi-loro, per tutti...
Io dormirò di un
sonno vuoto ed irreale, come una morte così a lungo desiderata e
mai giunta.
Torno a letto. Ombra già
dorme. Se ora la svegliassi, probabilmente non sarebbe più in grado
di riconoscermi; a volte vorrai svegliarla un momento prima della luce...
Ante lucem, soror nubis,
solve nostros magnos metus...
Era proprio così
quella poesia che ti scrissi tanti anni prima?
Non ricordo.
Ma l'inganno non può
durare in eterno; spinto al punto di frodare la morte con la notte, e ridurre
la luce a quella che può essere ancora indispensabile per vivere...
Non c’è nessun altro
modo.
Mi rialzo. Per una vecchia
abitudine acquisita in tempi che non riesco a ricordare, chiudo le finestre,
tiro le tende, abbasso le tapparelle, serro gli scuri, buio...
Ora è certo che se
Ombra aprisse gli occhi, davvero non potrebbe più metter a fuoco
le tenebre.
Torno a letto.
Lei tra poco scomparirà
nel nulla.
E ricomparirà poi
nel Mondo-Luce dove vivono i Diurni e non potrà ricordarsi nulla
di me. Perfino l'Abissale...
Era proprio così
quella poesia?
Non ricordo.
Un momento prima della luce?
Non c'è nulla, sorellina...
Forse...
Ma no, non c’è nulla
prima della luce.