Sei minuti. La voce stridula
del pilota lo ha appena annunciato via intercom. Quello stronzo secondo
me si diverte, a fare su e giù in continuazione. Davvero non so
cosa ci possa essere di tanto spassoso a fare continuamenteme la spola
tra Base e la Ruota, a farsi sparare in cielo dalla rampa equatoriale con
un'accelerazione da mozzare il fiato per poi ricascare giù a piombo
qualche minuto più tardi. A pensarci bene però, c'è
gente in giro che riesce a trovare il modo di farsi piacere le cose più
assurde, per cui forse non c'è poi troppo da meravigliarsi.
Noi invece continuiamo a
fare errori come dei novellini, anche se non è la prima volta che
ci mandano sulla Ruota.
La vibrazione sorda e profonda
dei propulsori principali si è spenta un minuto fa, portandosi via
anche le 6 g di accelerazione che per pochi ma interminabili minuti ci
hanno tenuti incollati ai sedili, immobilizzati nelle imbracature di sicurezza,
impedendoci persino di voltare la testa.
Neymann ha cominciato ad
imprecare non appena la gravità è calata a zero. Adesso è
lì che si massaggia il petto con una mano, mentre fra le dita dell'altra
stringe una piccola capsula arancione, un antidolorifico allpurpose, indeciso
se ingoiarla o meno. Ha agganciato male una delle cinghie e l'accelerazione
di fuga gliel'ha fatta quasi penetrare nella carne. Guarda la capsula colorata
per qualche altro istante, poi la lancia via. Quella sfreccia veloce,
in assenza di gravità, sbatte contro la parete di fronte e rimbalza
indietro con un angolo che la porta a sparire dietro una delle altre file
di poltroncine davanti a noi.
- Fanculo.
- Non farla così
lunga, Neymann, una volta ci sono cascata anch'io e ti assicuro che ad
una donna fa molto più male. Mi è rimasto il livido sul seno
per una settimana.
Neymann mi guarda, apre
la bocca come per rispondere qualcosa e poi gira la testa dall'altro lato,
continuando a massaggiarsi e ad imprecare sottovoce contro la sua stupidità.
Adesso i minuti rimasti
saranno sì e no quattro.
- Dai Chip - dico a Bailey
mentre faccio scattare la sicura dell'imbracatura di sicurezza - Andiamo,
è il tuo giorno fortunato.
- Waschberger, ci sono solo
quattro minuti, non ce la facciamo - replica Bailey, il quale però
a sua volta libera rapidamente il sistema di sicurezza della sua poltroncina.
- Ce la facciamo, ce la
facciamo. Vieni qui. - Mi piace quando fa il disfattista, mi eccita ancora
di più.
Lo tiro via dal suo posto
e insieme galleggiamo verso la nostra meta, l'armadio-ripostiglio delle
tute di emergenza.
È per cose come questa
che gli altri a volte ci guardano come se fossimo dei matti. State lontani
dalle squadre ansible, dalle teste d'uovo, sono tipi fuori di cervello.
Questo è ciò che dicono di noi.
Beh, non posso dargli torto.
Alcune delle cose che ogni tanto facciamo possono sembrare davvero da pazzi,
come ad esempio quella di fare un pompino ad un compagno di squadra approfittando
dei pochi minuti di gravità zero prima dell'attracco della navetta
alla stazione orbitale.
È una cosa da matti,
lo ammetto, ma nello stesso tempo, non so come spiegarlo, è qualcosa
che abbiamo bisogno di fare.
Tutti insieme.
Sì, perché
Torres, Neymann e Rubini sanno perfettamente che genere di giochino io
e Bailey stiamo per fare e, in un modo che è difficile da spiegare,
pur non partecipando fisicamente, condivideranno con noi questa bravata,
saranno con noi.
Forse è una stronzata,
ma penso che persino Waterson, che è in coma su Base, percepirà
qualcosa.
Perché noi siamo
una squadra ansible.
Chiunque abbia combattuto
almeno una battaglia via ansible, chiunque abbia lasciato per ore il proprio
corpo in una bara di metallo per andare a morire in quello di un altro
sa cosa voglio dire.
È il bisogno di realtà
che ci spinge a fare cose del genere. È una cosa che gli altri non
potranno mai capire. Il fatto di essere veramente noi, e non i nostri cloni
da combattimento, a fare qualcosa di non programmato da qualche esperto
tattico del Genio, è estremamente importante per noi.
Sapere che quello che ogni
tanto ci inventiamo è frutto della nostra mente e non ci è
stato iniettato nel cervello insieme al glucosio di sostentamento è
una cosa che ci fa sentire reali, che in qualche modo ci dà la certezza
di essere vivi.
Adesso che il pilota ha
acceso i piccoli reattori di direzione, la vibrazione che si avverte toccando
una qualsiasi delle pareti della navetta è quasi piacevole, come
un mormorio sommesso.
L'accelerazione equivalente
è forse di una frazione di g, appena avvertibile, l'ideale per fare
del sesso acrobatico. Peccato non averne il tempo.
Apro l'armadio e sgancio
tre tute dai loro supporti, passandole a Bailey, che a sua volta le lascia
galleggiare via. Quando entra nel piccolo spazio che ho ricavato, Chip
Bailey è eccitato come un ragazzino alle prime armi.
Per cinque secondi, nell'oscurità
dell'armadio, l'unico suono che produciamo è quello del velcro delle
chiusure delle tute da lavoro che protesta quando ce le apriamo a vicenda.
I successivi due minuti
sono soltanto sesso puro e semplice. E riusciamo persino a compierla, qualche
piccola acrobazia, nonostante il buio e lo spazio ristrettissimo.
Il corpo di Bailey ha un
buon odore e... sì, anche un buon sapore. Il tocco delle sue mani
lungo il mio corpo è dolce ma deciso ed in pochi attimi i capezzoli
mi si irrigidiscono così tanto da farmi male.
Dicono che quando fanno
del sesso orale le donne non provano niente o quasi, che il piacere è
tutto dell'uomo.
È vero, ma non in
questo caso.
Non so come spiegarlo, ma
mi dà un grande piacere sentire il corpo di Bailey reagire al mio
tocco e sapere che è veramente lui, dentro al suo corpo.
È bello. E soprattutto
è reale.
Giusto un attimo prima di
venire Bailey mormora il mio nome.
- Lena - dice quasi bisbigliando
e, non so perché, questo basta a farmi raggiungere l'orgasmo insieme
a lui.
Allontano la bocca dal suo
corpo proprio mentre qualcosa di piacevolmente simile ad una supernova
mi esplode nel cervello. Afferro il suo braccio nel buio e lo stringo forte,
mentre l'esplosione a poco a poco si affievolisce.
È tutto dannatamente...
fantastico. Cazzo, non so come altro definirlo: avverto un piacevole calore
affluirmi fra le gambe, i capezzoli perdere la loro rigidità, un
velo di sudore condensarsi sopra il labbro superiore, appena sotto il naso;
ascolto il mio respiro e quello di Bailey, sento distintamente persino
il mio cuore, che riprende il suo ritmo normale.
E so di essere io.
Un istante dopo, è
tutto finito.
Il pilota annuncia che stiamo
attraccando al dock sette.
Bailey fa scorrere la porta
del piccolo ripostiglio e finalmente possiamo di nuovo vederci qualcosa.
Siamo un po’ capovolti,
rispetto al pavimento della navetta e a pochi centimetri dal mio viso galleggia
un piccolo globulo di liquido bianco, mentre altre due o tre sferette filamentose
stanno lentamente andando alla deriva verso le altre tute di emergenza
che sono ancora appese ai loro sostegni.
Ecco quello che succede
quando si eiacula a g-zero.
Oh Dio! Mi ricordo la prima
esercitazione a bordo della Kusanagi. Ci spiegarono il comportamento dei
fluidi organici in assenza di gravità, il problema del drenaggio
delle mucose e perfino quello del sangue menstruale, ma in quanto a liquido
seminale... nemmeno un accenno. Bè, a quanto pare si comporta
come la saliva, o quasi.
- Non pensi che faremmo
meglio a pulire? - domanda Bailey, contorcendosi per riacquistare la posizione
corretta rispetto al pavimento.
- Faremmo? Se non sbaglio
è tutta roba tua, quella che c'è in giro - rispondo dopo
aver soffiato via la goccia di sperma che avevo accanto, mandandola ad
appicicarsi sulla manica di una delle tute grigie appese. A mia volta,
mi giro per riacquistare una posizione un po’ più decente, richiudendo
nel frattempo le chiusure della tuta da lavoro.
- Ah ah ah, molto spiritosa.
Dai, prendi uno di questi e aiutami, altrimenti la prossima volta ce lo
faranno trovare bloccato.
- Quell'armadietto non può
esser bloccato, dato che c'è materiale d'emergenza - è la
voce divertita di Rubini, da fuori - Però è meglio se pulite
lo stesso, non è detto che in quelle tute non ci finiamo noi, una
volta o l'altra, e francamente mi seccherebbe ritrovarmi i tuoi fottuti
spermatozoi spiaccicati sulla visiera del casco, Bailey.
- Vaffanculo, amico - è
la risposta secca di Bailey, ma poi sghignazzando, ripuliamo in fretta
le tracce del nostro "incontro romantico", servendoci di un paio di fazzolettini
sintetici monouso, proprio mentre con una serie di scossoni decisi, la
navetta aggancia le servoguide del dock della stazione orbitale.
- Vai, presto! - In un lampo,
sempre ridendo, recuperiamo le tre tute monopezzo sparse nell'abitacolo
e le ammassiamo dentro l'armadietto. I fazzolettini spariscono nelle tasche,
li getteremo nei riciclatori della stazione.
- Attenti idioti, ora allineeranno
la gravità! - ci avvisa Rubini, un po’ in apprensione.
Approfittando dell'ultima
frazione di secondo a gravità ridotta, spicchiamo un balzo verso
le nostre poltroncine.
È un errore.
La gravità viene
allineata mentre siamo ancora in volo e così cadiamo, come due pere
mature, di traverso sopra la fila di poltroncine.
- Merda! - grida Bailey,
rialzandosi lentamente e strofinandosi il gomito destro, che ha sbattuto
nella caduta.
In quanto a me, ho preso
soltanto un colpo allo stomaco, niente di grave, anche se mi ha mozzato
il fiato.
- Tutto a posto? - domanda
Torres, sganciandosi dalla sua imbracatura.
- Sì, grazie. Andiamo,
che ci aspettano.
Mentre il portello della
navetta si apre, il nostro allegro pilota si fa sentire ancora una volta
nell'intercom.
- Ragazzi, spero che il
viaggio sia stato piacevole per voi quanto lo è stato per me. E
a proposito... l'attrezzatura di emergenza va rimessa sempre in ordine,
così come l'avete trovata. Valga per la prossima volta.
Segue una risata gracchiante
e molto poco simpatica.
Io e Torres alziamo il medio
della mano destra all'indirizzo dell'intercom e del pilota e poi usciamo,
uno alla volta, sulla banchina pressurizzata del dock sette.
Ci incamminiamo spediti verso
la nostra destinazione, muovendoci con facilità lungo i corridoi
illuminati a giorno della stazione, aiutati anche dalla gravità
leggermente ridotta della Ruota. Se non ricordo male dovrebbero essere
quattro quinti di g, due decimi in meno di quella terrestre, tre decimi
in meno di quella di Base.
Il centro di addestramento
speciale della Ruota è vicino al mozzo centrale della stazione,
dove ci sono anche le palestre e i campi di simulazione a g-zero; per raggiungerlo
dobbiamo attraversare per intero uno dei raggi della grande stazione orbitale,
passando davanti agli alloggi dei marines, ai centri di controllo e di
calcolo e alle sezioni idroponiche di riciclaggio rifiuti organici.
L'aria che si respira all'interno
della Ruota è buona, come sempre. L'ossigeno prodotto dalle microalghe
delle vasche idroponiche viene filtrato, raffreddato, addizionato di azoto
e ionizzato. Quella che esce dai condotti di ventilazione è aria
fresca, pulita e rilassante. Niente a che vedere col miasma che si respira
a bordo delle navi da combattimento o nei sotterranei di Base, anche se
quest'ultimi a dire il vero non sono poi così male, in quanto ad
abitabilità.
Quando passiamo davanti agli
alloggi dei soldati, un gruppetto di ragazzetti in uniforme si affaccia
a guardare.
Dobbiamo apparir loro un
po’ strani, con le nostre teste lucide e pelate, le tute grigie da lavoro
non mimetiche, l'aria impettita e allo stesso tempo annoiata, l'andatura
compatta e silenziosa da camerati e... sì, anche la nostra strana
arroganza, che deriva dal fatto di far parte di un corpo speciale, non
sottoposto a tutte le regole e le restrizioni degli altri soldati.
Non posso biasimarli se
ci guardano come fossimo delle strane bestie aliene. Con la strana logica
perversa che regna ovunque ci siano gruppi con caratteristiche molto differenti
che però lavorano ad una causa comune, questa gente ci disprezza,
per quello che facciamo, perché siamo diversi da loro pur combattendo
la stessa guerra, e allo stesso tempo ci invidia, perché abbiamo
il coraggio di fare quello che facciamo e perché godiamo di privilegi
che a loro non sono concessi.
Non è piacevole sentirsi
i loro sguardi addosso, anche se poi noi siamo altrettanto critici nei
loro confronti.
Ovviamente i commenti bisbigliati,
le smorfie di scherno e le battute sul nostro conto non mancano mai, in
occasioni come questa. Però a cose del genere sappiamo come reagire,
ormai abbiamo una certa esperienza.
- Hei, è vero che
voi delle squadre ansible passate talmente tanto tempo fuori dai vostri
corpi che quando rientrate vi confondete e non riuscite più a capire
se siete nel vostro corpo o in quello del vostro compagno? È per
questo che andate sempre tutti assieme pure al cesso?
Eccolo qui, l'idiota di
turno. Un ragazzo alto, snello, belloccio, con i capelli neri. Mai visto
prima d'ora, dev'essere nuovo. È una noia con questi novellini,
tirano fuori sempre la stessa battuta, pensando di aver detto chissà
cosa. Gli ci vuole sempre un po’ prima che comincino ad inventarne qualcuna
appena appena più estrosa, che valga la pena di stare a sentire.
Ovviamente non è
questo il caso. Per vecchie battute come queste, abbiamo risposte collaudate
da tempo.
- Leo - lo dico quasi con
noncuranza, ma Torres scatta come un serpente.
Con un solo gesto, trascina
fuori il ragazzo dall'uscio e lo attira a sè, spingendolo quindi
contro la parete del corridoio. Poi, prima che quello possa azzardare una
reazione qualsiasi, Torres lo bacia con violenza sulla bocca, stringendogli
contemporaneamente con una mano i genitali attraverso l'uniforme, delicatamente
ma con decisione, quel tanto che basta a dargli un po’ di fastidio senza
fargli male sul serio. Poi lo lascia andare, mentre i suoi compagni sono
tenuti a bada da Neymann, Bailey e Rubini.
- Hai ragione, soldato.
- gli faccio col mio tono di voce più suadente avvicinandomi a lui,
che nel frattempo è piombato in ginocchio, con le mani fra le gambe
- Questo ad esempio, era da parte mia, perché sei proprio carino.
Alcuni dei compagni del
marine cominciano a ridere, apprezzando lo scherzo, subito seguiti dagli
altri, che hanno bisogno di qualche secondo in più, per capire cosa
sia accaduto.
Torres aiuta il ragazzo
a rialzarsi, gli strizza l'occhio, poi tutti ci voltiamo e proseguiamo
lungo il corridoio, lasciandoci gli alloggi dei marines alle spalle e il
nostro povero amico alle cure dei suoi compagni, che ancora continuano
a ridere e a prenderlo in giro.
Più della metà
di questi giovanotti dev'essere appena stata assegnata qui da qualche stupida
accademia militare; ancora non sono abituati alle squadre ansible, alle
strane reazioni di quelli come noi.
Poco male, impareranno presto
ad evitarci.
La sala di Addestramento
Tattico Ambientale della Ruota, il luogo dove noi delle squadre ansible
di tanto in tanto veniamo istruiti in occasioni di missioni particolari,
è in realtà una piccola palestra a gravità zero riadattata,
praticamente vuota, con le pareti letteralmente imbottite di centinaia
di migliaia di sensori, monitor, microlaser, rilevatori e chissà
cos'altro.
Siamo stati qui già
altre volte. Cinque, per la precisione. Ci mandano qui quando le missioni
cui siamo destinati richiedono un pre-adattamento ambientale in aggiunta
all'indottrinamento neuronale che ci viene impartito durante il collegamento
ansible.
L'ultima volta è
stata per la missione su Godel, o Gorel, non ricordo più bene il
nome. Quello che ricordo è che dovemmo strisciare carponi dentro
cunicoli larghi meno di un metro, scavati nel ghiaccio fossile, a quattro
metri di profondità.
Un fallimento completo,
nonostante l'addestramento ambientale.
Nello spogliatoio della
sala troviamo altre sei persone: due uomini, quattro donne. Li conosciamo,
sono la squadra Amaranto, ovvero Bishop, Lamberti, Saichiki, StClair,
Erwitt e... Green, sì.
- Salve gente - saluta allegro
Rubini - allora, dove vi spediscono stavolta?
- All'inferno. - mormora
Emil Erwitt.
- Davvero! Ci flipperanno
su un cesso di posto che si chiama Inferno. - a rispondere è Nicolas
Lamberti, occhi azzurri, pelle scura, abbastanza simpatico. Lui e Emil
Erwitt suonano del jazz abbastanza buono, quando non combattono.
- Indovinate perché
lo hanno chiamato Inferno - continua Kate Bishop, richiudendo l'ultima
strip della sua tuta. Kate è piccola, più bassa di me, ed
ha il volto pieno di lentiggini. Se potesse lasciarseli crescere, i suoi
capelli sarebbero color rame. È una piccola carogna cattiva ma sa
scopare da Dio, quando vuole. Se non fosse dichiaratamente ed ostinatamente
omosessuale a quest'ora avrebbe quasi tutti gli uomini di Base ai suoi
piedi, pronti a fare qualunque cosa chiedesse. Senza contare la quasi totalità
delle donne, che ha già.
- Non dirmi che lo chiamano
Inferno perché è ghiacciato! - azzarda scherzoso Rubini,
cominciando a spogliarsi.
- Sì, magari. Su
quel posto di merda ci sono quasi ventisei gradi, giorno e notte. Ai poli.
- Esatto, e come se non
bastasse c'è una Coriolis da trecentocinquanta all'ora che spazza
mezzo pianeta ogni tre giorni - ad intervenire è stata Eunice StClair,
una delle mie partner favorite nei tornei di squash su Base. Eunice è
magra, alta e velocissima. È una combattente accanita, è
stata "uccisa" in battaglia solo tre volte nelle ultime dodici missioni.
È l'unica che conosco a non aver mai sofferto di nessun disturbo
da transfert ansible. Niente, nemmeno il minimo tremore muscolare.
- È un deserto, giusto?
- domanda Neymann - Da come ne parlate dev'essere proprio un posto simpatico.
- Mentre si sfila la tuta dò un'occhiata al suo petto. In effetti
il segno della cinghia gli è rimasto, un piccolo livido lineare
sul pettorale sinistro.
- Magari pieno di animali
sotterranei, con la Coriolis così frequente... - aggiunge Bailey,
prendendo posto anche lui su una delle panche di plastica nera dello spogliatoio
e cominciando ad aprirsi la tuta.
Kate annuisce in risposta.
- Ci hanno fatto fare la conoscenza di un paio di talpe locali così
grosse e corazzate che sembravano carri blindati dell'esercito.
- Scusate, ma che cazzo
ci fanno i chiwin su un pianeta di schifo come quello? - domanda Torres
senza riuscire a distogliere lo sguardo dal corpo di un'altra delle componenti
della squadra Amaranto, Cheni Saichiki. Ormai tutti su Base conoscono gli
occhi di Cheni, ma Torres continua ugualmente a rimanerne ipnotizzato ogni
volta che li vede. Cheni ha una serie di tatuaggi attivi disegnati su tutto
il corpo; sulla schiena ha una cascata giapponese che è qualcosa
di splendido, il disegno dell'acqua cambia colore e percorso a secondo
dell'umore e della temperatura corporea. Ma quello più impressionante
di tutti sono gli occhi, che ha tatuati al centro del petto, appena sotto
le clavicole. I micropigmenti sono sincronizzati col suo respiro e col
battito del cuore, oltre che col flusso ormonale. Il risultato è
favoloso, sembra proprio che abbia degli occhi veri, sul petto, ed è
difficile distogliere lo sguardo, tanto sono espressivi.
Cheni, al contrario di Eunice,
è una di quelle che soffre maggiormente le crisi da transfert; i
suoi tatuaggi impazziscono quando lei va in tilt.
- E infatti i chiwin non
ci sono, su Inferno, non sono mica scemi - ribatte Lambert - Però
hanno lasciato lì qualcuno dei loro aggeggi automatici, giusto per
impedirci di stabilirci nelle zone circumpolari, che sono le uniche abitabili,
più o meno.
Continuiamo a chiacchierare,
a scambiarci le solite battute sui chiwin e su questa guerra sensa senso,
fatta di posizioni rubate e abbandonate, di trabocchetti ed agguati, e
in pochi minuti le posizioni nello spogliatoio si invertono: Noi in mutande
e i nostri amici della Amaranto belli vestiti ed in ordine, pronti a tornarsene
su Base.
- Ok, ragazzi, noi ce ne
torniamo a casa. Divertitevi, mi raccomando - dice Lambert, allungando
la mano col palmo aperto rivolto verso l'alto. Rubini risponde al saluto
in codice, muovendo la sua mano sopra quella di Lambert imitando il movimento
di un ragno, l'animale che da sempre rappresenta le squadre ansible.
Anche gli altri si scambiano
lo stesso saluto, tranne Leo e Cheni, che si dilungano ad usare il bacio.
Dopo aver mimato lo stesso movimento degli altri con le mani, si portano
entrambi la punta del dito indice alla bocca e poi, dopo averla inumidita
con la saliva, lo portano a contatto, per una frazione di secondo, con
quella dell'altro.
Un tempo ci si salutava
sempre così, fra membri di squadre ansible diverse, quando ancora
tutti pensavano che vincere la guerra contro i chiwin fosse soltanto una
questione di mesi. Il tempo, come sempre, ha cambiato le cose. Adesso questo
tipo di saluto in codice sottintende intese di genere differente, oltre
a quella di far parte della stessa casta di combattenti.
Ad ogni modo, nessuno dei
presenti ci fa caso più di tanto e così, qualche secondo
dopo ci ritroviamo da soli nello spogliatoio, in attesa che i tecnici allestiscano
la nostra simulazione ambientale e la luce sopra il condotto d'interfaccia
diventi verde.
Non ci vuole molto.
Uno degli aspetti positivi
della Ruota è la sua estrema efficienza, i tempi morti sono sempre
ridotti al minimo. È normale, se si pensa che ogni boccata d'aria
respirata quassù costa un sacco di energia e quindi di crediti.
Però fa piacere lo stesso.
Il condotto d'interfaccia
lascia entrare una sola persona alla volta, ad intervalli di circa trenta
secondi.
Prima di entrare bisogna
togliersi assolutamente ogni indumento e qualsiasi altro oggetto indossato,
compresi i cronometri-dosatori personali.
Come al solito, entro per
ultima nel condotto. Questa volta però provo una strana sensazione
di disagio, prima di attraversare la membrana di silicone trasparente.
Mi manca Waterson, ecco
cos'è.
Lui entrava prima di me,
ed ogni volta inventava qualcosa di spiritoso da dirmi, prima di lasciarmi.
Questa volta non ci sono
state battute e la cosa, non so perché, mi ha messo a disagio.
Prendo qualche boccata d'aria
forzando la respirazione, poi, trattenendo il respiro, entro nel condotto
cilindrico.
Penetro decisa il sottile
velo polimerico di silicio e come sempre la sensazione che provo è
quella di passare attraverso una cortina elastica di muco, anche
se a dire il vero questa roba è asciutta, fredda e inodore.
Appena dentro il condotto,
che sarà lungo un paio di metri al massimo, ho appena il tempo di
afferrare con le mani due degli appigli scuri e morbidi che spuntano fuori
dalla parete, poi, dopo un secondo, la luce va via.
POSIZIONE CORRETTA. CHIUDERE
GLI OCCHI E TRATTENERE IL RESPIRO, mi ordina la voce calda ma sintetica
del sistema di controllo.
Chiudo gli occhi e aspetto.
Immediatamente gli spruzzatori entrano in azione, verniciando con estrema
cura ogni centimetro quadrato della mia pelle, ad esclusione della testa.
Ce l'hanno spiegato la prima
volta, di cosa si tratta: è una resina a base di nanosensori, microattuatori
e un collante stabilizzante a presa ultrarapida.
Sia la colla che le micromacchine
mescolate con essa sono altamente fotodegradabili, ecco perché le
spruzzano al buio. Quando ripasseremo dal condotto per uscire, illumineranno
a giorno con gli ultravioletti e tutta questa roba si trasformerà
in acqua ed anidride carbonica ed evaporerà, non lasciando tracce.
Non appena il sibilo degli
spruzzatori si spegne, gli appigli esterni per le mani cominciano a muoversi
sotto le dita.
NON LASCIARE LA PRESA, ordina
la voce del computer, ed io come al solito obbedisco, anche se la cosa,
come ogni volta, mi fa un po’ schifo.
L'interfacciamento è
quasi terminato. Gli appigli si trasformano sotto le mie mani, aderendo
alle dita e ricoprendole di resina calda dalla consistenza collosa, risalendo
poi fino all'altezza dei polsi. Si sono trasformati in guanti, lo so senza
bisogno di guardare.
Procedo, sempre trattenendo
il fiato e con gli occhi chiusi, fino all'altra estremità del tunnel,
anch'essa protetta da una membrana siliconica.
L'attraverso e mi ritrovo
all'interno della Sala di Addestramento Tattico Ambientale.
Riapro gli occhi e riprendo
fiato.
La sala è buia, ovviamente:
la luce danneggerebbe la pellicola di resina che ci ricopre. Fa fresco,
perché la temperatura della sala è stata regolata in modo
tale da farci sudare il meno possibile.
L'oscurità però
non è totale. Una sottilissima linea verde pallido - prodotta da
alcuni pigmenti fosforescenti attivati dai computer nelle pareti - mi indica
la posizione che devo raggiungere. Man mano che procedo, la linea guida
scompare alle mie spalle, spegnendosi come per magia. Nel buio quasi completo
riesco a malapena a scorgere la silouette di uno dei miei compagni, forse
Neymann, a giudicare dall'altezza, che pare come crocifisso nella sua struttura
di controllo-movimento.
Raggiungo la mia ruota e
li' la linea luminosa si ferma, formando un cerchio sottile attorno al
resto dell'equipaggiamento di interfaccia, davanti ai miei piedi.
Raccolgo gli attuatori e
li indosso, in fretta. Il cerchio scompare.
La cosa più difficile,
al buio, è agganciare l'imbragatura di contenimento. I nastri sottili
si incrociano sulla vita e dietro la schiena, per poi sparire da qualche
parte, nella leggera struttura circolare che serve a controllare i movimenti
durante la simulazione ambientale.
Mentre inserisco gli auricolari,
i minilaser della visierina ottica mi lampeggiano nelle pupille, per determinare
la messa a fuoco e la distanza stereoscopica.
Nelle narici mi arriva odore
di terra bagnata, di ozono, segno che anche gli attuatori olfattivi nelle
narici funzionano.
Infine, la ruota si mette
in moto, facendomi compiere un paio di giri. Odio questa parte, è
una cosa che farebbe venire la nausea anche ad un manichino di plastica.
Per fortuna, dopo i primi
giri, la gravità nella stanza viene annullata. La sensazione adesso
è quella di cadere da tutte le parti contemporaneamente, ma la preferisco
mille volte a quella di prima.
Sono pronta.
Attendo ansiosa per un paio
di secondi, con i sensi in allerta anche se è soltanto un'esercitazione,
aspettando che il computer centrale o chi per lui dia il via alla simulazione,
ma l'unica cosa che continuo a vedere sono le strane ma familiari postimmagini
geometriche del sistema di calibratura ottico, splendidi pattern di luce
fantasma che fluttuano lentamente alla deriva verso i margini del
campo visivo.
Poi, all'improvviso, un
piccolo punto azzurro pare sollevarsi davanti a miei occhi.
È la nostra destinazione.
La voce del sistema ausiliario
comincia a snocciolare la solita marea di dati, precisi, chiari e assolutamente
inutili, sul pianeta che abbiamo di fronte. Neymann, Torres, Bailey e Rubini
stanno ovviamente condividendo la mia stessa simulazione, sento Bailey
mormorare "acqua" negli auricolari.
Il punto azzurro comincia
a gonfiarsi come un palloncino pieno di gas e in pochi istanti diventa
enorme, immenso.
E liquido.
Il pianeta si chiama Similar
e non possiede terre emerse. Il sistema di simulazione ha escluso le coltri
di nubi che coprono perennemente i due terzi del globo per farci vedere
meglio con che cosa i nostri cloni ansiblati avranno a che fare.
Giriamo un paio di volte
attorno al pianeta, controllando poli ed equatore, poi ci immergiamo. Sul
serio.
- Cazzo! - grida Torres,
sorpreso.
A quelli delle simulazioni
ambientali piace fare questo genere di scherzi, ci si divertono.
In effetti, è difficile
non rimanere sorpresi in occasioni come questa. La pellicola che ci ricopre
simula bene la sensazione dell'acqua sulla pelle, la pressione e perfino
il cambiamento di temperatura. Pensare che a far questo sono milioni di
microaggeggi, che in continuazione interagiscono con il mio corpo e con
gli strumenti di controllo sparsi su tutte le pareti della sala, mi ha
sempre fatto una certa impressione, ma questa volta forse è anche
peggio del solito.
La voce negli auricolari
continua a spiegarci le caratteristiche del pianeta, mentre il nostro equipaggiamento
si materializza nell'acqua nella quale galleggiamo.
Per lo meno non dovremo
attraversare il pianeta a nuoto. A quanto pare avremo a disposizione degli
Aquaskip d'assalto come quelli che abbiamo già usato su Arctica,
qualche tempo fa. Ecco, quella sì che fu una missione come si deve.
Sbrigammo efficacemente il lavoro in meno di tre ore senza perdere neanche
un clone.
Sfrecciamo a bordo degli
Aquaskip sotto la superficie liquida e tranquilla del pianeta verso l'obiettivo
prefissato, un sistema di piattaforme subacquee di estrazione mineraria.
I chiwin estraggono minerali
pesanti dai bassi fondali della zona sud orientale del pianeta, lungo la
più alta delle dorsali oceaniche che attraversano Similar da un
emisfero all'altro.
Provo a manovrare il mio
Aquaskip e quello reagisce docilmente, proprio come se fosse reale. Gli
attuatori di retroazione nei guanti sono assolutamente perfetti, non c'è
la minima differenza fra simulazione e realtà.
Un improvviso guizzo rossastro
attira la mia attenzione verso il basso.
Guardo giù attraverso
il vetro.
Il fondale sotto di me è
completamente rosso.
E si muove.
Richiedo con un gesto delle
dita uno zoom al sistema di interfaccia e lui mi ingrandisce un particolare.
Sono pesci. Miliardi e miliardi
di piccoli pesci rossi e sottili, non più grandi del mio dito mignolo.
Assolutamente inoffensivi,
commestibili, ricchi di proteine a base di amminoacidi levogiri, si affretta
ad informarmi il sistema, aggiungendo anche le solite informazioni superflue
come ad esempio il loro stranissimo nome scientifico secondo lo xenocatalogo
ufficiale.
È uno spettacolo
incredibile, una distesa mobile e colorata che si estende ben oltre dove
arriva lo sguardo. Questi pesci - informa il sistema - formano branchi
immensi, che si estendono a volte anche per trenta chilometri quadrati,
per un'altezza di cinquanta, sessanta metri.
È difficile anche
solo pensarla, una simile massa vivente, diavolo.
Chissà perché
quelli dell'addestramento tattico tengono a farci sapere cose come questa.
Voglio dire, è interessante ma di certo non infuente ai fini della
missione. È tutta memoria sprecata, insomma. Comunque, contenti
loro...
- Li avete visti? - domando
ai miei compagni.
- È impossibile non
notarli, Waschberger. Ma scommetto invece che questo ancora non l'avevi
visto. - risponde Neymann.
Il suo Aquaskip sfreccia
verso il basso, aprendo un varco nella compatta muraglia rossa di pesciolini,
mostrando solo una piccola porzione di un qualcosa di colore nero.
- Cos'è?
- Da' un'occhiata al sonar,
tesoro, e prova a richiedere informazioni.
Il sonar a scansione selettiva
dell'Aquaskip mostra ovviamente la muraglia di pesci rossi, ma sotto quella,
appena una decina di metri più in basso, c'è qualcos'altro,
una specie di enorme piattaforma.
Chiedo informazioni al sistema,
che mi fornisce anche un'immagine in scala ridotta.
È un mostro.
- Oh merda! - Rubini deve
aver richiesto la stessa informazione, vista la reazione.
- È una specie di
enorme manta, si nutre di quei pesciolini - ci informa tranquillo Neymann,
che a quanto pare sa già tutto.
- Quattrocento metri!? Questa
fottuta bestia è lunga quattrocento metri? - domanda Bailey.
In effetti, anch'io faccio
fatica a credere alle informazioni del sistema su questa enorme sottospecie
di balena piatta. Quattrocento metri di lunghezza e altrettanti di larghezza.
Cavolo, solo la bocca è grande quanto un piccolo incrociatore da
battaglia.
Mentre continuo ad osservare
il modello ridotto del mostro marino avverto improvvisamente uno strano
odore.
È strano, fino ad
ora gli attuatori olfattivi non erano entrati in gioco, anche perché
nell'acqua non è che ci sia molto da odorare. Inoltre all'interno
degli Aquaskip di solito si repira aria sintetica, inodore.
Molto strano. Si fa sempre
più forte; è un odore dolciastro e acido, organico, molto
intenso.
Sangue.
Sì, ci assomiglia
parecchio, ma non sangue umano. È l'odore del sangue di qualche
animale, ha un non so che di... selvatico. Qualche grosso mammifero, Oppure...
La pellicola che mi ricopre
comincia a prudermi dappertutto, come se improvvisamente fossi diventata
allergica. Le mani mi formicolano e gli auricolari emettono soltanto una
specie di sommesso ronzio, una sorta di rumore bianco a bassa frequenza,
quasi piacevole, a dire il vero.
Faccio in tempo a pensare
"qualcosa non va", poi, senza preavviso, salta tutto.
Al di là degli auricolari,
qualcuno grida e, improvvisamente, scopro che gridare è esattamente
ciò che vorrei fare anch'io.
Vorrei urlare.
No, non è così,
non vorrei, devo urlare. È importante, essenziale, necessario.
È l'unico scopo della mia vita, in questo momento.
Riesco persino ad aprire
la bocca, ma poi non c'è più tempo.
Mi prude il naso. Mi prude
all'interno, fra gli occhi, dal lato del cervello.
Quando avevo otto anni mio
padre, in uno dei suoi soliti attacchi d'ira, mi ruppe il naso mandandomi
a sbattere con la faccia contro il muro della mia camera. Ricordo il rumore
attutito di qualcosa che si rompeva e poi il sangue, che comiciò
a scorrere come se qualcuno avesse aperto un rubinetto. Non riuscivo a
respirare e me ne stavo lì, impalata, con la bocca aperta, mentre
tutto quel liquido caldo e scuro mi colava sulla bocca e sul mento
e poi giù sui vestiti, e per terra, e dappertutto. Non piangevo.
Guardai mio padre, in cerca di aiuto, ma lui disse soltanto Va in bagno
e pulisciti, non vedi che stai sporcando tutto?
Non ricordo cosa pensai
allora, ero ancora troppo piccola per capire che razza di bastardo fosse
in realtà mio padre. Andai in bagno e cercai di ripulirmi, in qualche
modo.
Quello che ricordo bene
invece è la sensazione di prurito che nei giorni seguenti
mi perseguitò senza darmi tregua. Somigliavo ad un procione, avevo
delle enormi occhiaie violacee a causa del travaso di sangue e... mi prudeva
l'interno del naso.
Proprio come adesso.
Solo che stavolta il prurito
non è causato da una rottura, bensì da una riparazione.
Sì, perché
questa volta ne siamo usciti davvero malconci.
È una specie di primato,
il nostro. Nessuno è mai uscito così distrutto da una seduta
di addestramento ambientale!
Adesso le possibilità
sono due: o la nostra squadra è particolarmente sfortunata oppure
qualcuno ce l'ha con noi.
Siamo vivi, è vero,
ma fa male.
Ci hanno riportati su Base,
sento che la gravità è quella di sempre, ma nessuno ricorda
il viaggio di ritorno. Chissà se hanno usato la stessa navetta dell'andata.
Cosa è successo?
Qualcuno, non so chi fosse,
ha cercato di spiegarcelo, ma prima ha dovuto aspettare che ci ricostruissero
i timpani lesionati.
I chiwin hanno attaccato
la nostra base su Commodity che, a quanto pare, era quella che elaborava
e trasmetteva via ansible le simulazioni tattico ambientali a tutte le
stazioni orbitali e ai centri di addestramento in questo settore della
galassia. In parole povere, tutte le informazioni su - come si chiamava?
- quel pianeta tutto d'acqua con i pesciolini rossi e quell'enorme mostro
nero non erano elaborate sulla Ruota bensì su Commodity, che le
trasmetteva alla Ruota.
I chiwin, facendo saltare
il centro di trasmissione di Commodity hanno interrotto la simulazione
anche sulla Ruota, così come, ovviamente, su ogni centro militare
che riceveva dati ansible da Commodity.
Solo che su tutti gli altri
centri non è successo niente, la simulazione ambientale si è
interrotta e basta, click, niente più dati, arrivederci e grazie.
Sulla Ruota invece è
andata diversamente. Perché, ovviamente, c'eravamo noi.
Risonanza. Così ha
detto il tizio che ci ha spiegato la cosa. L'interruzione ha fatto entrare
in risonanza qualcosa negli strumenti di controllo della Sala di addestramento,
i quali perciò invece di fermarsi sono impazziti.
Ecco perché i laser
delle visierine ci hanno bruciato le retine; ecco spiegato il motivo per
cui gli auricolari se ne sono andati in ultrasuono, non prima però
di averci distrutto i timpani; ecco com'è successo che i miliardi
di micromacchine che ci avevano spruzzato addosso hanno deciso improvvisamente
di cortocircuitarsi mandando all'inferno le nostre terminazioni nervose
epiteliali.
Ecco perché gli attuatori
olfattivi ci hanno bruciato i recettori e le mucose all'interno del naso.
Semplice risonanza, un banale
incidente.
Mi sarebbe piaciuto poterlo
vedere in faccia quel figlio di puttana, mentre lo diceva.
Cazzate, ecco quello che
sono.
Qui tutti dicono sempre
e soltanto cazzate.
Bah... al diavolo, mi prude
il naso.
Mi hanno spruzzato nelle
narici qualche altro milione di nanomacchine, che dovrebbero ripristinare
i delicati recettori chimici olfattivi bruciati e ricostituire le mucose
nasali.
Sarà... io sento
solo prurito.
So che a Bailey e Torres
hanno già sostituito anche gli occhi, dovrebbero essere in piedi
per primi.
Neymann invece ha ancora
le mani e parte del corpo ricoperti di gel, i suoi guanti sono gli unici
ad aver preso letteralmente fuoco. Dicono che è stata colpa della
carica elettrostatica del suo corpo.
Cazzate su cazzate.
Rubini e io siamo nelle
stesse condizioni: ci hanno messi in letti vicini e questo pomeriggio ci
trapianteranno gli occhi. Se tutto va bene, fra un paio di giorni saremo
come nuovi.
È la seconda volta
che Rubini cambia gli occhi. L'ha già fatto da bambino, su Myria,
al tempo dell'epidemia di Fern.
Dice che all'inizio
fa male, specie quando si deve mettere a fuoco, ma che poi va tutto liscio
che è una bellezza.
La voce di Rubini è
strana, anche se venata dal suo solito cinismo protettivo. È come
se cercasse di... tranquillizzarmi, a modo suo.
Gli voglio bene. Troverò
il modo di dimostrarglielo, quando sarò di nuovo in piedi.
Ho chiesto di Waterson.
È sempre in coma, intubato, in una delle stanze vicine. Per
lo meno lui questa volta se l'è scampata.
La guerra continua. Abbiamo
perso Commodity ma di sicuro avremo conquistato qualche altro posto. Questa
guerra è fatta così, giochiamo a rimpiattino con i pianeti.
Ormai sembra una cosa normale,
ma invece non lo è.
La nostra squadra è
stata fatta a pezzi e Waterson è in coma da tre settimane. Eppure
nessuno di noi ha mai combattuto - personalmente, intendo - contro il nemico.
Non è normale, una
cosa del genere, no davvero.
Eppure la guerra va avanti,
come se nulla fosse.
E come se non bastasse,
questo naso, maledizione, continua a prudermi.
Giuseppe De Rosa
©1993 (11 aprile - 30 maggio)
|