Dicono che quando
cadi da un grattacielo di quaranta piani, quando si rompe il gancio di
sostegno che ti tiene incollato alla parete di una montagna alta duemila
metri e precipiti giù verso le rocce sottostanti, quando ti esplode
una mina antiuomo sotto la suola degli anfibi e le tue gambe, i tuoi genitali
e metà dei tuoi intestini schizzano via a quindici metri di distanza
e tu ancora non te ne sei accorto, quando insomma sei bello che morto,
anche se non ancora ufficialmente, dicono che in quella manciata di secondi
che ti rimangono fai a tempo a rivivere l'intera tua esistenza, e che riesci
a ricordare tutto fin nei più piccoli, insignificanti particolari.
Questo, dicono.
Ma evidentemente quelli
che lo dicono non sono mai morti sul serio, perché altrimenti saprebbero
che le cose non stanno affatto così.
Francine
E ce ne stiamo qui, immersi
nel viola, ad aspettare.
Rimaniamo fermi e galleggiamo,
come se fossimo immersi in una immensa piscina colma di acqua colorata.
Oh, potrebbe trattarsi anche di succo di mirtilli annacquato, o di sciroppo
per la tosse, o persino di qualche strano concime liquido per le piante,
di quelli a base di sangue bovino. Sì il paragone non è male,
ce ne stiamo immersi nel concime, in attesa di germogliare e crescere,
in attesa che ci spuntino le radici, e con esse le prime foglioline verdi.
Bah, stupidi pensieri da
cadavere.
Siamo fermi all'interno
di un colore, un colore che circonda tutto e si estende a perdita d'occhio
senza variazioni di intensità.
Inutile cercare di spiegarlo.
Non è liquido, non è gassoso, non è gelatinoso.
È viola, ed è
dappertutto. È un bel colore.
Siamo fermi, ma presumo
che se volessimo potremmo muoverci, non c'è niente che ci trattenga
dal farlo.
Sì, ma dove andremmo?
Non c'è niente e
nessuno in vista, da nessuna parte. Non ci sono uscite, non ci sono porte
ne' finestre, non ci sono suoni né rumori.
E poi non ci sono direzioni
verso cui potremmo dirigerci.
Non so nemmeno dove sono
l'"alto" e il "basso", in questo momento. Non c'è gravità,
in questo posto.
Non c'è gravità
in questo viola.
Per cui, suppongo che anche
i miei compagni abbiano fatto la mia stessa scelta e abbiano deciso che
la cosa migliore da fare sia rimanersene fermi ad aspettare.
I miei compagni.
I miei compagni sono morti,
esattamente come me.
Uno si chiama Fabrizio,
ed è italiano; l'altro è un enigma per me, è piccolissimo
e non ha nome, non ha fatto in tempo ad averne uno.
Parlo di loro al presente,
come se fossero ancora vivi, e non so se sia corretto. Forse dovrei usare
il passato o l'imperfetto e dire che uno "si chiamava Fabrizio" e l'altro
"non aveva nome". Forse dovrei farlo, ma non voglio.
Il passato e l'imperfetto
sono tempi adatti a persone che non ci sono più, che hanno finito
di esistere "qui e ora" e delle quali è rimasto solo il ricordo.
Ma i miei compagni sono qui in questo momento ed esistono, con la stessa
solidità e convinzione con la quale io pure sono qui.
Il fatto che siano biologicamente
morti non è sufficiente a togliere loro il diritto al tempo presente.
Fabrizio dunque è
italiano, di un piccolo paese vicino Ancona, ha i capelli bianchi e il
volto leggermente segnato dalle rughe.
Ha sessantadue anni ed è
morto di embolia cerebrale emorragica.
Il bambino invece, che ancora
non finisce di stupirmi, è africano e bellissimo, ed è morto
subito dopo la nascita per colpa di una malformazione congenita del suo
piccolo cuore. Quello che mi stupisce è che, pur essendo morto appena
nato, riesce a capire quello che diciamo perfettamente e altrettanto bene
riesce a comunicare con noi.
È una cosa che sovverte
ogni logica razionale, che fa a pugni anche col più semplice buon
senso.
Accidenti, non ha nemmeno
un dente in bocca, eppure quello che dice si capisce benissimo!
È una cosa che mi
stupisce ancor più del fatto che pur essendo morta sia ancora cosciente,
e sia qui, immersa in un non so che di colorato, in assenza di gravità,
insieme ad un sessantaduenne italiano, anch'egli morto, di cui conosco
molte più cose di quanto forse nemmeno lui stesso sappia.
Mi stupisce più del
fatto che addosso io non abbia neanche un graffio, anche se so bene che
dopo un volo come quello che ho fatto con la mia Civic, dovrebbe esser
rimasto ben poco di intatto di me e della macchina.
Mi stupisce più del
fatto che, sebbene l'orologio analogico si sia fermato, il cronometro digitale
del mio Swatch funzioni ancora.
A proposito, da quando l'ho
fatto partire sono trascorsi diciotto minuti, i quali, sommati ai due,
tre minuti trascorsi prima che mi venisse in mente di guardare l'orologio
per vedere se funzionava mi dicono che è trascorsa meno di mezz'ora
da quando mi sono ritrovata qui insieme ai miei compagni.
Mezz'ora. Sì, ma
il tempo passa alla stessa maniera anche per noi che siamo morti? Un secondo
dura un secondo anche se sei morto oppure il tempo, una volta che sei morto,
cambia le sue caratteristiche, modifica il proprio "sapore"?
Quello che il mio cronometro
svizzero sta contando è tempo normale o è tempo... morto?
Magari gli Swatch di questo
modello sono progettati anche per il tempo morto e io non lo sapevo...
la cosa non mi sorprenderebbe più di tanto, visto tutto quello che
è accaduto fino ad ora.
Anche se, a pensarci bene,
fino a questo momento non è successo ancora un bel niente.
Stiamo qui ad aspettare
da venti minuti, ma quello che dovrebbe accadere, quello che ci è
stato "promesso", tarda a verificarsi.
Forse i miei compagni hanno
ancora dei dubbi, non hanno ancora fatto la loro scelta.
- Fabrizio, Sai già
dove andare, vero? - gli domando. Fabrizio è davanti a me, la sua
testa galleggia in linea con la mia. Anche il bambino è in linea
con noi, la posizione dei nostri corpi è tale da permettere una
comunicazione agevole.
Formiamo un triangolo, e
siamo talmente vicini che se volessimo potremmo tenerci per mano. In altre
circostanze, una tale vicinanza mi avrebbe sicuramente dato fastidio; quando
ero viva avevo bisogno almeno di un metro abbondante di spazio libero attorno
a me se mi trovavo in compagnia di gente sconosciuta, altrimenti cominciavo
a sentirmi a disagio.
Adesso la cosa mi è
indifferente, forse perché conosco chi mi sta intorno - anche se
solo da qualche decina di minuti - o forse, più semplicemente, perché
sono morta, e i morti non possono più provare disagio o fastidio.
- Sì, Francine, ho
già deciso. - mi risponde tranquillo Fabrizio - Però lo sai,
non si tratta di un "dove", ma di un "quando". - la sua voce è quella
di un vecchio professore, senza inflessioni o tonalità dialettali,
la sua parlata è lenta, modulata, piacevole da ascoltare. Il suo
francese è perfetto, anche se so benissimo che non lo ha mai studiato.
- E tu? - chiedo rivolgendomi
all'altro mio piccolo compagno senza nome - hai deciso?
- In questo momento. - è
la sua risposta.
E improvvisamente non siamo
più nel viola.
L'uomo senza nome
Mi ci è voluto un
po' per decidere, lo ammetto, nonostante la durata della mia esistenza
in vita non sia stata precisamente "lunga"; sono morto appena quattro ore
dopo esser nato, così non è che abbia avuto poi molto tempo
per guardarmi intorno.
Per fortuna, avevo a disposizione
anche i nove mesi trascorsi all'interno del corpo di madre e così
ho perso un po' di tempo per decidere quali fossero i dieci minuti che
valevano davvero la pena di esser rivissuti.
Sì, ho diritto a
dieci minuti.
A quanto sembra, chiunque
muoia ha diritto ad un viaggio indietro nel tempo di dieci minuti, anche
se deve condividere il viaggio con i suoi compagni di morte.
Come faccio a saperlo?
Francamente non ne ho idea;
secondo Francine non dovrei essere nemmeno in grado di parlare o di articolare
un pensiero coerente; secondo lei un esemplare di essere umano così
piccolo non dovrebbe essere ancora in grado di focalizzare la propria attenzione
su qualsiasi cosa per più di qualche secondo, figuriamoci possedere
concetti come quello di "viaggiare nel tempo" o di "coerenza"!
Fabrizio invece non mi è
sembrato altrettanto sorpreso, lui spiega la cosa da un punto di vista
teleologico, tutto quello che è accaduto fino ad ora può
essere adattato, con qualche stiramento, alla sua concezione cattolico-cristiana
dell'Universo. Secondo lui noi non siamo più quelli che eravamo
da vivi, secondo lui noi siamo le "anime" di quelli che eravamo.
Non sono molto propenso
a dare credito a questa sua teoria ma, d'altro canto, non riesco a trovare
una spiegazione alternativa altrettanto valida, al momento attuale.
Comunque, anche Fabrizio,
nonostante le sue convinzioni, non è per niente sicuro di quello
che sta accadendo. La sua dottrina prevede solo tre possibili destinazioni
per l'anima, una volta lasciato il corpo umano che la racchiudeva, e nessuno
di tali luoghi di arrivo contempla questo "bonus" di dieci minuti di viaggio
a ritroso nel tempo.
La sua dottrina non spiega
nemmeno il perché del colore viola nel quale ci siamo ritrovati
a galleggiare, un colore che non ha particolari significati nemmeno per
Francine, a quanto ne so.
Comunque adesso ci siamo
spostati, non siamo più lì.
Siamo tornati, "sono" tornato
da mia madre.
Non avevo mai visto mia
madre "da fuori" fino a questo momento - le quattro ore che ho trascorso
fuori dal suo corpo sono piuttosto confuse, nella mia memoria - ma ora
posso vedere tutto, posso vedere com'era mia madre quando ancora io ero
dentro di lei.
È primo pomeriggio,
e il caldo sole equatoriale viene smorzato dal tetto di fronde della capanna
nella quale mia madre sta riposando, sdraiata su di un'amaca di corda.
Attorno regna un silenzio
perfetto, rotto soltanto dal monotono ronzare degli insetti, fuori e dentro
la capanna.
È bellissimo.
E anche mia madre è
bella, con gli occhi chiusi ed un mezzo sorriso sulle labbra semiaperte.
È in pace con se stessa e col mondo, questo pomeriggio, esattamente
come ricordavo.
Guardo i miei compagni bianchi
e scopro che sono... sconcertati, non hanno mai visto né provato
una cosa del genere. O meglio, se anche l'hanno provata forse non se ne
ricordano più.
Ma non voglio sprecare il
mio tempo a curarmi di loro. Ritorno ad osservare mia madre, con la pancia
gonfia di me ed i seni pieni, splendidi e placidi.
La luce del sole, mi accorgo,
riesce a filtrare attraverso le fessure fra le foglie del tetto e colpisce
il corpo di mia madre con tante piccole gocce luminose. Alcune di esse
bagnano il suo ventre prominente, formando minuscole pozzanghere bianche
sulla sua pelle scura. Mi ricordo di quelle pozze di calore. Subito mi
riproietto all'interno, per cercare di percepirle dal "di dentro". Niente.
La luce non riesco a vederla, però in qualche modo riesco ugualmente
a "sentirla".
E la sente anche "lui",
anche il me stesso che sono venuto a visitare. Lo vedo muoversi, "mi" vedo
muovere, impacciato in quest'angusto ma accogliente spazio scuro, per cercare
di avvicinare il viso ai piccoli frammenti di calore provenienti dall'esterno.
Ascolto.
Qui dentro il ronzio degli
insetti non arriva, ma è ugualmente una specie di brusio quello
che sento. Un mormorio pulsante, ritmato, costante, rotto da periodici
rintocchi cupi, ovattati. È il cuore di madre che batte, è
il suo sangue che scorre, lento, nel sonno.
Chiudo gli occhi e mi lascio
andare.
Gli ultimi minuti li voglio
rivivere da solo, in comunione con mia madre, e non come spettatore. Chissà
se mi è permesso.
Rimango così, dentro
di lei, immobile, ad assaporare i battiti del suo cuore, inondato dalla
sua pace, immerso nei suoi sogni.
Quando riapro gli occhi
so benissimo che il mio tempo è scaduto.
Mi guardo attorno, ma siamo
già altrove.
Fabrizio
Ringrazio Dio.
Per quello a cui mi ha permesso
di assistere.
Ringrazio Dio per avere
trasportato qui la mia anima, per averle mostrato quanto possa essere grande
il suo potere e la sua bontà.
Dopo quello che ho visto,
dopo la pace e la serenità che il viaggio di questo bambino è
stato in grado di infondermi, non sono più troppo convinto
di aver fatto la scelta giusta.
Con tutti i luoghi e i tempi
a mia dispozizione, ho scelto di venire qui, nel posto in cui sono nato
e nel quale sono cresciuto. Ho scelto di tornare qui, in un tempo dove
so che non ci sarà pace né serenità, soltanto perché
volevo capire e, forse, trovare un modo per rimediare.
Ho scelto di tornare qui,
che Dio mi perdoni, perché volevo salutare Argo.
Perché la prima volta
non ho fatto in tempo.
Eccolo lì, che si
trascina lentamente, ormai senza forze, con in bocca un'altro dei suoi
tesori sepolti da chissà quanti anni e che ha ammucchiato davanti
alla porta di casa.
È Argo, il mio cane,
e fra meno di dieci minuti morirà.
A chiamarlo Argo, come il
cane di Ulisse, è stato mio padre. Credo fosse rimasto affascinato
dalla storia di Omero sin dai tempi della scuola e così quando una
giovane cagna venne a partorire sul retro del granaio della nostra fattoria,
mio padre attese che i cuccioli venissero svezzati e poi ne prese uno per
me, che a quel tempo avevo solo tre anni. E lo chiamò Argo.
Quello che accadde non fu
niente di eccezionale, credo sia successo a molti. Crescemmo insieme nella
fattoria e, sebbene trascorresse quasi tutto il suo tempo in cortile -
poiché mia madre non gli permetteva di entrare in casa per più
di qualche minuto - Argo mi scelse come suo compagno di giochi prediletto
e mi si affezionò, con la dedizione e la risolutezza che solo i
cani sono capaci di dimostrare.
La sua adorazione arrivava
a tal punto che mio padre era costretto ad incatenarlo all'abbeveratoio,
la domenica, quando ci recavamo in paese a seguire la messa, perché
altrimenti lui mi avrebbe seguito fin dentro la chiesa.
Quando poi cominciai ad
andare a scuola, mio padre dovette convincersi a lasciarlo venire con noi
quando mi accompagnava fino in paese, i primi giorni, perché altrimenti
non avrebbe fatto altro che uggiolare e guaire per tutto il tempo. Così,
insieme mi accompagnavano all'entrata della scuola e poi se ne tornavano
indietro, anche se Argo con un'espressione niente affatto convinta sul
suo muso peloso.
Dopo un po' però,
ci fece l'abitudine, e così smise di smaniare per accompagnarmi,
anche se me lo ritrovavo sempre, al ritorno da scuola, che mi aspettava
seduto accanto alla pietra miliare che segnava l'ingresso del lungo sterrato
che dalla strada principale portava alla nostra fattoria.
In quanto a me... gli volevo
bene, ma in maniera normale, allo stesso modo in cui volevo bene a mia
madre e mio padre; Argo faceva parte della famiglia e come tale lo trattavo,
non rendendomi conto di quanto tenacemente invece lui avesse legato la
sua esistenza alla mia.
Non c'è molto altro
da dire. Vivevamo le nostre vite, crescevamo e affrontavamo i vari ostacoli
che il Signore poneva sul nostro cammino, per renderci più forti.
Col passare degli anni,
io divenni più grande e Argo sempre più vecchio, finché
i peli del suo muso e delle zampe, da neri divennero grigi. Ma lui continuava
ad adorarmi.
Il suo declino divenne visibile
nell'arco di poche settimane; cominciò a mangiare sempre meno e
prese a rimanere sdraiato quasi tutto il giorno.
Sapevo che Argo era vecchio
- avevo quasi sedici anni al tempo, e quindi lui ne aveva tredici - e sapevo
che sarebbe morto, un giorno o l'altro. Accettavo la cosa perché
sapevo che tutte le creature del Signore sono destinate a morire, e sapevo
che Argo sarebbe andato in cielo, perché era stato un buon cane.
Ciò nonostante, mi
rammaricai moltissimo di non essermi trovato accanto a lui, quando se ne
andò.
Anche perché, quando
finalmente quel pomeriggio tornai a casa, trovai davanti ai gradini della
porta di casa, dal lato del cortile interno, una gran quantità di
ossa rinsecchite, vecchie scarpe ammuffite, stracci consunti e sporchi,
ciocchi di legno masticato.
Quelle porcherie senza valore
erano state i suoi giocattoli e i suoi piccoli tesori nel corso degli anni
e lui le aveva tirate fuori dai nascondigli dove erano state sepolte o
nascoste chissà quanti anni prima e le aveva ammonticchiate, non
davanti o dentro alla piccola e malandata costruzione di legno che era
la sua cuccia, bensì dinanzi la porta di casa, la nostra casa, la
"mia" casa.
Non ho mai capito il perché
di quel gesto, anche se mi è rimasto un sospetto.
E quel sospetto da allora
ha sempre roso la mia anima, sempre, anche quando lasciai la fattoria per
andare a studiare in città, all'università, persino quando
mio padre vendette tutta la proprietà, perché non era più
in grado di occuparsene.
Sono passati quarantasei
anni da quel giorno e la mia vita è stata piena di momenti gioiosi
e tristi, come quella di tutti, del resto; ho avuto una moglie, molti amici,
moltissimi scolari ai quali ho insegnato volentieri quello che sapevo;
ho conosciuto persone che mi hanno dato molto e che invece io non ho mai
ringraziato, per un motivo o per l'altro - e di questo dovrò rendere
conto al Signore -; ho vissuto molti momenti che sarebbe valsa la pena
di rivivere, anche se solo per pochi minuti; eppure quando ho "saputo"
che avrei avuto diritto a dieci minuti nel tempo, quello di poter tornare
indietro dal mio cane è stato il mio primo e più forte pensiero.
Ed eccolo lì, il
mio Argo, magro e spelacchiato.
Ha posato l'ultimo osso
per terra, sulla ghiaia del cortile e si è lasciato cadere su se
stesso, senza energie, con il muso rivolto verso la strada.
Sta aspettando me, lo so.
Mi inginocchio davanti a
lui, il suo respiro è affannato e lento nello stesso tempo.
Mi accorgo di star piangendo,
e questa è una cosa che non ho mai fatto in vita mia, nemmeno quando
morirono i miei genitori. Che il Signore Dio mi perdoni.
So che non posso toccarlo,
so di non essere davvero "qui", so che si tratta soltanto di un miracolo
della vista che Dio mi sta concedendo nella Sua infinità bontà,
eppure mi chiedo cosa succederebbe se provassi comunque ad accarezzargli
il muso... ma non riesco nemmeno a provarci.
Argo guaisce per l'ultima
volta, e in quel guaito posso percepire tutto il suo dispiacere.
È dispiaciuto che io non sia lì con lui, dispiaciuto di non
avermi potuto consegnare di persona i suoi tesori. Ha resistito il più
possibile, ma ora non ce la fa proprio più.
Con un movimento lento,
come se stesse cedendo al sonno invece che alla morte, chiude gli occhi,
arrendendosi.
Ma questa volta, anche se
tutto nel frattempo scompare, ho tempo a sufficienza per dirgli addio.
Francine
Perché dovevo essere
io l'ultima?
Perché la mia scelta
è forse troppo banale?
È perché in
venticinque anni non sono riuscita a mettere assieme dieci minuti di tempo
a cui poter tornare serenamente così come hanno fatto i miei compagni?
O è perché
non ho voluto rinunciare a niente?
È per questo che
devo essere l'ultima?
Oh, ma lo spettacolo è
già cominciato, e io mi sono dimenticata di riazzerare il cronometro,
accidenti.
Eccomi qui, a quattro anni,
mentre con mia madre salgo sulla vettura delle montagne russe del Parco
Giochi di Montreal. Appena rimisi piede a terra le vomitai tutto il gelato
sul vestito della domenica.
Qui sono sempre io, a sei
anni. Primo giorno di scuola. Per un'ora piansi fino a finire le lacrime,
poi mi accorsi che la mia compagna di banco stava anche lei piangendo per
lo stesso futile ed inspiegabile motivo e così la smisi. Alla fine
della mattinata ero diventata così amica della mia nuova compagna
di banco che non volevo più tornare a casa.
Sette anni, nel giorno del
mio compleanno. Mi regalarono un bellissimo criceto bianco, che però
morì dopo qualche mese per qualche strana malattia dei criceti.
Otto anni. Gita alle cascate
del Niagara. Un clown pagato dal municipio mi regalò un palloncino
rosso, che mi lasciai sfuggire per la sorpresa quando mio padre mi prese
in braccio - qui, ecco - per farmi vedere l'enorme salto che tutta quell'acqua
faceva ad ogni secondo.
Nove anni. La mia migliore
amica ed io giochiamo con le bambole nella soffitta di casa. Per invidia,
o forse per gelosia, le ruppi una delle sue bambole più belle facendo
finta che fosse stato un incidente. Lei ci credette, perché era
mia amica, e io improvvisamente mi sentii così male per quello che
le avevo fatto che il giorno dopo le regalai Ester, la mia bambola prediletta.
Mi sentii molto meglio, dopo averlo fatto.
Dieci anni. Sono al pronto
soccorso dopo esserni rovesciata addosso il boiler dell'acqua che stava
sui fornelli. Per fortuna l'acqua all'interno non era ancora bollente.
Ricordo che la cosa che mi spaventò di più fu l'espressione
atterrita che si disegnò sul volto di mia madre quando vide quello
che era successo.
Undici anni. Esco con mia
madre a comprare un vestito nuovo per la recita a scuola. Ed ecco qui,
la recita. Declamai una poesia di Elisabeth Barret Browning senza fare
nemmeno un errore. Un successo.
Qui... sì, a dodici
anni. Pier De la Croix mi bacia sulla guancia come pegno di un gioco che
stavamo facendo a casa di una mia amica e per la prima volta la cosa mi
fa piacere. È strano come la chimica dei nostri corpi sia in grado
di influenzare anche il nostro comportamento.
Tredici anni. Brutto momento...
scopro al mattino di avere le mutandine sporche di sangue. Sono le prime
mestruazioni, e mia madre me ha parlato a dovere ma... prima di ricordarmene
faccio in tempo a rimanere paralizzata dal terrore per un lungo, terribile
istante.
Quattordici anni. Facciamo
una gita allo Yellowstone Park, in America. Lì vicino c'era un posto
dove affittavano dei cavalli per fare delle passeggiate. Ne scelsi uno
marrone con una macchia nera su di un fianco, e trascorsi una delle più
belle giornate della mia vita.
Quindici anni. Marie Cristine
Aulisio si porta a scuola due delle sigarette di suo padre e durante l'ora
di geografia andiamo a fumarle nel bagno delle ragazze. Mi ricordo che
mi girava la testa, non tanto per il fumo, quanto per il fatto che stavo
facendo qualcosa di proibito. Era una sensazione inebriante. Due mesi dopo
cominciai a fumare regolarmente, anche se di nascosto.
Quindici anni e mezzo. Sono
alle ultime pagine di "Straniero in terra Straniera" un libro di fantascienza
prestatomi da Sarah Mountenot. Mi innamorai del protagonista della storia,
una cosa assolutamente pazzesca. Rilessi il libro altre due volte, quell'anno.
Questa è bella. Qui
avevo sedici anni e qualche mese, e Albert Delmont mi invitò fuori,
una sera. Spese per me tutta la sua paghetta di due settimane, e per tutto
il tempo si comportò da perfetto gentiluomo. Quando mi riaccompagnò
a casa, con la macchina di suo padre, non tentò di baciarmi, mi
disse soltanto che aveva passato una bella serata e che sarebbe stato felice
di rivedermi, qualche altra volta.
Be', non so cosa mi prese,
ma gli saltai letteralmente addosso, lo baciai, con la lingua - una cosa
che non avevo ancora mai fatto, anche se avevo mimato spesso la cosa davanti
allo specchio del bagno - gli abbassai la lampo dei jeans e poi... aprii
la portiera della macchina e corsi via, dentro casa, ridendo come una matta.
Lui non fece nulla, rimase
seduto in macchina davanti casa, col motore acceso, per almeno dieci minuti,
tanto che pensai che potesse essere svenuto. Poi invece ripartì,
lentamente, e si allontanò.
Due giorni dopo, ecco qui,
gli permisi di deflorarmi sul sedile posteriore della stessa auto. Fu doloroso
e scomodo. E dannatamente fantastico.
Qui invece ho diciassette
anni, e sono al concerto di Springsteen con un'amica musicista che suonava
al Fullmoon, un pub-discoteca del centro. Alla fine del concerto, un amico
di questa mia amica ci offrì della cocaina, o così almeno
disse lui. La provai, anche perché ero mezza ubriaca.
Stetti male tutta la notte
ed il mattino successivo, non ho mai saputo spiegarmene il perché.
Forse ero allergica alla cocaina o a qualcosa che avevano usato per tagliarla.
Comunque quella fu l'ultima volta che provai a prendere droga.
Diciotto anni. Il funerale
di mia nonna Frances, della quale porto il nome. Non le ero particolarmente
affezionata e poi veniva a trovarci di rado, ma rimasi triste per una settimana
e per due notti di seguito non riuscii ad addormentarmi.
Ancora a diciotto anni.
Ultimo giorno di scuola della mia vita.
Chissà perché,
dopo averla odiata cordialmente per tutti quegli anni, quel giorno mi sentii
triste e spaesata. Forse perché quello era l'ultimo giorno della
mia infanzia, da un certo punto di vista, e per la prima volta mi rendevo
davvero conto che una parte importante della mia esistenza era terminata.
Diciannove anni. Questo
è il momento in cui il test dell'urina diede esito negativo. Il
sollievo che provai quella volta fu indescrivibile, si trattava solo di
un ritardo.
Qui sono a letto con l'influenza,
sempre a diciannove anni. In Tv diedero "Il Grande Freddo", con Jeff Goldblum
e William Hurt. Rimasi letteralmente ammaliata da quel film; chissà,
forse perché stavo male.
- Fabrizio, tu lo ha visto
questo film?
- Sì, mi pare di
sì, ma non lo ricordo con precisione.
- Allora probabilmente ho
ragione io, mi piacque così tanto solo perché in quel momento
stavo male.
- Non dire così,
i nostri gusti potrebbero essere differenti, non dare per scontato che
i miei siano migliori dei tuoi.
Mi colpiscono, le sue parole.
Fabrizio deve esser stato davvero un bravo insegnante, da vivo.
Mentre parliamo, il film
della mia vita va avanti, inesorabile. Sembra proprio di essere al cinema,
a vedere una pellicola di cui conosco benissimo ogni fotogramma.
Venti anni. Comincio a lavorare
in una società di brokeraggio assicurativo, come segretaria. Il
primo giorno è un vero disastro, ma lì sono tutte donne e
così faccio presto ad ambientarmi.
E questa sono io con in
mano l'assegno del primo stipendio settimanale: centosettantacinque dollari
e cinquanta. Non è molto, ma mi sento ricchissima, e invito tutta
la famiglia al ristorante per festeggiare.
Ventun anni. Jaqueline,
la manager del mio ufficio, va in California per un contratto di quelli
a sei zeri e mi porta con lei. È come un sogno, dall'inizio alla
fine. La California è davvero calda e pazzesca.
Ventidue anni. Conosco William
"Wil" Flaynard durante un party di lavoro. Parliamo del più e del
meno per quasi cinque ore, dopo che il party è finito. E facciamo
all'amore come due indemoniati per le successive quindici ore.
E questo è il giorno
del nostro matrimonio, sei mesi più tardi.
- Spero non ti stia annoiando,
la mia vita sembra fatta tutta di luoghi comuni - dico a Fabrizio mentre
vedo me stessa a ventitrè anni dipingere i muri della stanza da
letto della nostra nuova casa con indosso solo reggiseno e mutandine.
- Al contrario, io la trovo
molto interessante - mi risponde al suo posto il piccolo uomo senza nome.
- È vero Francine,
è così. Non devi vergognarti della tua vita, sarebbe un peccato.
- Io non mi vergogno affatto...
è solo che, non so, non ho mai fatto niente di eccezionale, niente
di pazzesco, niente di avventuroso...
- Nemmeno io, mia cara.
- Mi volto a guardarlo, perché il tono della sua voce è strano,
ma lui con un cenno del capo mi indica la scena che si sta svolgendo nel
frattempo.
Sono io, ovviamente, al
volante della mia auto.
Sto percorrendo la strada
costiera per andare a trovare Ailine e Carl Vanderberg nella loro casa
al mare, per il fine settimana. Wil è andato a Chicago per un meeting
della Alphacomp, e così per fortuna sono sola, in macchina.
Ed eccola qui, apparentemente
innocua e tranquilla, la curva che mi ha ucciso, che ha troncato definitivamente
e senza mezzi termini la mia tranquilla e pacifica vita di ragazza di città.
Anche rivedendo la scena,
non riesco a capire bene quello che succede, vedo solo che il guard rail
di metallo cede come fosse fatto di cartone, e io volo giù, verso
il mare e gli scogli che mi aspettano, cinquanta metri più in basso.
Guardo me stessa cadere,
e non provo niente.
Non grido, mentre precipito.
Non mi copro nemmeno il volto con le mani, niente.
Sono lì, che stringo
incredula il volante, guardando con la bocca aperta le rocce farsi incredibilmente
vicine, in pochi istanti.
E poi tutto scompare, ancora
una volta.
Ed il viaggio è finito.
- Beh, qualcosa di spettacolare
l'ho fatto, dopo tutto - mormoro a voce alta e mio malgrado sento un brivido
strisciarmi dietro la schiena, mentre lo dico.
Fabrizio ride, ed anche
il piccolo bambino nero e le loro sono risate buone, di amici.
Mi unisco a loro, anche
perché d'un tratto il pensiero di tre cadaveri che sghignazzano
mi sembra irresistibilmente comico.
E così, mentre insieme
ridiamo della mia morte, torniamo nel viola.
Insieme
- E ora, cosa pensate che
accadrà? - domanda Francine ai suoi due compagni di viaggio.
- Penso che il Signore ci
indicherà la strada, dobbiamo solo pazientare. - risponde Fabrizio.
- Sono d'accordo. Non ci
resta altro da fare che aspettare - concorda il piccolo bimbo senza
nome.
- Allora faccio ripartire
il cronometro, almeno potremo sapere quanto tempo passa.
- Ma ci serve davvero saperlo,
Francine? Che importanza ha ormai, il tempo, per noi?
- Dici? Ma allora cos'è
che dovrebbe avere importanza, a questo punto, se non il tempo?
- Cosa fate, litigate?
- Hai ragione, non ha senso.
Scusa, Fabrizio.
- Scusami tu, mia cara.
Ho dimenticato che non sono io quello che può decidere cosa è
importante e cosa non lo è.
- Sapete che faccio? Lo
faccio partire lo stesso, anche se conta solo tempo morto, il vederlo correre
mi fa sentire in qualche modo più "viva".
- Tempo morto?
- Oh, è solo una
stupidaggine, non farci caso.
- Stupidaggine per stupidaggine
- dice ad un tratto il bimbo senza nome - ne ho pensata una anch'io.
- E sarebbe?
- Sarebbe che magari noi
siamo immersi nel Tempo e non lo sappiamo, non ce ne siamo accorti.
- Cosa vorresti dire, che
stiamo galleggiando nel Tempo?
- È un'idea come
un'altra.
- Uhmm, e perché
no? La tua idea mi piace. E a te, Fabrizio?
- Non so. Sono stato educato
a pensare a posti come questo come a luoghi di transizione per le anime.
Se dovessi dire la mia, direi che questo è una specie di Limbo,
e che prima o poi andremo in qualche altro luogo. O almeno lo spero.
- Lo spero anch'io, ma ciò
non toglie che l'idea del nostro piccolo compagno qui, sia affascinante.
- Affascinante, sì,
questo te lo concedo volentieri.
- E poi significherebbe...
che il Tempo è viola! Che il Tempo è colorato e che il suo
colore è il viola!
Come in risposta a quest'ultima
battuta di Francine, il colore nel quale i tre sono immersi comincia a
cambiare tonalità, schiarendo in pochi istanti fino ad un rosa pallido.
Poi, con la subitaneità
di un flash fotografico o di un lampo in una notte di tempesta il colore
cambia, passando dal tenue rosa ad un verde carico, opprimente.
I tre ammutoliscono, mentre
attorno a loro il colore cambia nuovamente a verde pallido. Un momento
più tardi, con un guizzo, tutto diventa azzurro e quindi, dopo pochi
attimi, arancione.
- Non ci hanno impiegato
molto - esclama Francine con voce stridula, cercando di esorcizzare la
paura che d'un tratto le si è insinuata dentro, controllando con
difficoltà il suo cronometro mentre tutt'attorno i colori continuano
a sostituirsi gli uni agli altri sempre più velocemente - meno di
tre minuti.
- Che sta succedendo? -
domanda il piccolo senza nome in tono solo leggermente esitante.
- Non lo so, piccolo mio,
proprio non lo so - risponde Fabrizio, chiudendo gli occhi con forza.
- Tutti questi colori...
- mormora fra sè Francine, serrando a sua volta le palpebre e rannicchiandosi
in posizione fetale - è folle che un cadavere possa sentirsi male...
eppure mi sta venendo la nausea, accidenti.
Soltanto il piccolo uomo
senza nome rimane con gli occhi aperti, a guardare il caleidoscopio di
colori cambiare a velocità sempre maggiore, ed è lui l'unico
ad assistere agli ultimi, frenetici, agonizzanti singulti del Tempo che
muore. È lui l'unico ad ammirare il conclusivo, spettacolare cambiamento.
Con un ennesimo brevissimo
lampo silenzioso, l'ultimo, fugace colore lascia improvvisamente il campo
ad una luce bianca e tremenda, intensa e compatta, candida e abbagliante,
impossibilmente priva di calore. È una luce che ferisce gli occhi
e che inonda i tre compagni di viaggio sino a rendere indistinte le loro
sagome.
Fabrizio si lascia sfuggire
un grido, più sorpreso che spaventato, parandosi il volto con le
mani, incapace di resistere all'abbacinante candore che riesce a filtrare
anche attraverso le palpebre chiuse.
Francine lo imita, facendosi
scudo con le ginocchia, che tiene serrate al petto, con forza.
- Potete riaprirli, gli
occhi. La luce fa male solo per un attimo, poi passa. - Il tono della voce
del bambino nero è eccitato ma controllato, il suo sguardo è
fisso verso un punto distante pochi metri dritto avanti a lui. - Qui c'è
quello che stavamo aspettando.
Fabrizio riapre con cautela
gli occhi, curioso suo malgrado, e altrettanto fa Francine con un gesto
repentino, come se le parole del bambino l'avessero destata improvvisamente
da un sonno leggero, o da uno stato di ipnosi.
La fitta di dolore lancinante
che brucia le loro pupille dura in effetti meno di un istante, e poi possono
vederci di nuovo.
Davanti a loro un globo
di luce, più bianco e splendente di qualsiasi cosa essi abbiano
mai visto, galleggia immobile, sommergendo ogni cosa con la sua immacolata
luminosità.
- Ho idea che quella sia
la nostra prossima destinazione - scandisce a bassa voce il bambino senza
nome.
- Andiamo - risponde Fabrizio,
quasi in estasi - sono sicuro che ci stiano aspettando - sul suo volto
adesso è dipinta un'espressione quasi sognante.
- Sei contento, eh? Sembra
proprio una scena da Vecchio Testamento - sussurra Francine prendendolo
bonariamente in giro, tendendogli allo stesso tempo la mano quasi tremante,
mano che il vecchio uomo stringe con presa sicura, quasi paterna.
Francine offre l'altra mano
al piccolo neonato dalla pelle scura.
- D'accordo - dice il piccolo
bimbo nero nel suo perfetto francese-italiano, spingendosi ad afferarre
la mano della giovane donna - vediamo cosa c'è al di là del
Tempo.
Così, insieme e tenendosi
per mano, curiosi e intimoriti allo stesso tempo, i tre entrano nella
luce abbagliante, che scompare in silenzio dopo averli avvolti completamente,
lasciando soltanto una tenebra infinita dietro di sè.
Nello stesso istante da
qualche altra parte - e da qualche altra parte ancora, e ancora, e ancora,
in differenti bolle di Tempo - dopo esser stati immersi nel viola anche
altri viaggiatori scompaiono, alcuni perché stanno iniziando il
loro viaggio di dieci minuti, altri perché lo hanno già compiuto.
Giuseppe De Rosa
©1992 (26 febbraio - 12 aprile)
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