a cura di Marco Marinelli
IL CUBO |
The Cube- Canada, 1997 |
Regia di Vincenzo
Natali, con Nicole deBoer, Nicky Guadagni, David Hewlett,
Andrew Miller, Julian Richings distribuzione home video: Eagle Pictures |
Indecifrabile. Sfuggente. Luniverso di "Il
cubo" è uno sguardo di scherno rivolto al passato, alle
idee retoriche che dovrebbero costituire la Storia, alla
speculazione stessa che al passato cerca di attribuire una
direzione, un senso.
I sei personaggi che si svegliano dentro una stanza cubica e
scoprono che quella stanza è soltanto uninfinitesima parte
di un unico, labirintico cubo, non si conoscono, non sanno
perché sono lì, non hanno idea di chi abbia creato quello
strano universo, dimenticano ben presto persino lintenzione
di scoprirlo.
Nelle tenebre da cui sono avvolti, capiscono che è inutile
qualsiasi tentativo di rintracciare i fini individuali di chi ha
creato "il cubo": in quelluniverso, ambiguo,
leggero, incoerente, è preferibile gravitare intorno al concetto
di volontà, vivere la propria vita, esprimere la volontà di
distacco da tutto ciò che è rappresentazione.
La metafora non potrebbe essere più chiara: viviamo nel buio
dellirrapresentabile, il contenuto, la radice della vita è
illusione, menzogna, la concretezza del mondo presente è solo
unastrazione mascherata, ogni immagine è un miraggio.
Ma se la vita è illusione, menzogna, che senso ha sfidare
"il cubo", giocare il gioco che sembra proporci,
tentare di svelare il volto sconosciuto che lastrazione
sistematica del gioco sembra voler nascondere?
Alla fine, alla fine di un gioco che sembra durare ore, o giorni,
o settimane ed esprime, in realtà, il tempo come apparenza priva
di risonanze, stereotipo ucronico, i personaggi superstiti, che
ormai non hanno più identità e si sono identificati
completamente con il proprio ruolo, tradiscono la presunzione di
assumere una prospettiva dallalto, di leggere lenigma
che avvolge il gioco.
Si tratta, naturalmente, di unillusione: la conoscenza è
dolore, rifiuto del finalismo, coscienza, da parte di chi agisce,
che il piacere della competizione, lastuzia, la
sopraffazione sono solo una parvenza, un sogno.
Marco Marinelli
IL 13° GUERRIERO |
The 13th Warrior - Usa, 1999 |
Regia di John
McTiernan, con Antonio Banderas, Vladimir Kulich, Sven
Wolter, Omar Sharif, Diane Venora distribuzione home video: Buena Vista Home Video |
Se il genere fantasy si è spesso o quasi sempre prestato a
fraintendimenti in senso ideologico che rispondono ad un concetto
di genere inteso in senso strettamente contenutistico, Il
13° guerriero tenta di ribaltare questa concezione
"riduzionistica" innestando in un soggetto che mantiene
le prevedibili componenti epiche e mitiche una componente di
ambiguità che risponde ad una concezione dell'immagine
complessa, vitale, dinamica, intesa come consapevolezza della
coscienza, del processo della percezione, non come un esercizio
di tecnica.
Questo tentativo diventa visibile nell'idea di totalità dinamica
che sostiene la struttura del soggetto.
Colpisce, in Il 13° guerriero, l'accostamento
dialettico di culture tra loro distanti, che viene risolto sulla
base di coppie oppositive piuttosto povere di spessore.
Se quella rappresentata dai guerrieri vichinghi è improntata ad
una sorta di fede acritica nell'ego individuale, di dimensione di
mera esteriorità che si traduce nelle figure del conquistatore e
del saccheggiatore, quella espressa dai misteriosi uomini - orso
risulta in qualche modo speculare alla prima.
L'oscurità dalla quale provengono e che in qualche modo li
identifica è il risultato di una sorta di inscrizione
dell'individuo in un destino collettivo inteso come incapacità
di sottrarsi all'influsso della Dea Madre che essi adorano, di
allontanarsi dalla sorgente dell'essere e della vita.
Ma nell'oscura pulsione di morte che sembra attraversarli si può
anche intendere il prevalere della forza primitiva, violenta,
pericolosa, incontrollabile.
In effetti, l'identificazione con il loro animale totemico,
l'orso, rappresenta di per se stessa un segnale piuttosto
inquietante nel senso del prevalere di forze oscure,
incontrollabili, del resto ben rappresentate dal simbolismo
dell'orso, emblema dell'inconscio ctonio, lunare e notturno.
Simbolismo, quest'ultimo, che viene in qualche modo raddoppiato
dal simbolismo della caverna: gli "uomini - orso"
vivono in caverne sotterranee e la caverna, archetipo dell'utero
materno, può rappresentare l'abisso spaventoso da cui provengono
i mostri, l'inconscio e i suoi pericoli.
Tuttavia, se i vichinghi fanno riferimento ad una forma di
esasperata estroversione, che trova un freno nell'evidente senso
di comunità e nel legame forte con il territorio che li
caratterizza, è più ambiguo il polo opposto dello scontro
dialettico: negli "uomini - orso" è presente il
catalizzatore rappresentato da una visione del mondo segnata da
un rifiuto netto, totale dell'individualismo, ma questo rifiuto,
all'apparenza così evidente, finisce per trasformarsi in altro
da sé, in una sorta di caos ambiguo di impersonalità, di
turbamento di un rapporto ordinato con il proprio io interiore e
con il mondo esterno. Ma se è vero che questa e altre
considerazioni andrebbero corrette in considerazione della figura
rappresentata dal diplomatico arabo (Antonio Banderas) unitosi ai
dodici guerrieri vichinghi, che svolge il ruolo il guida, di
agente di trasformazione nei confronti dello zelo tutto esteriore
degli altri guerrieri e che così facendo modifica, dona spessore
al tema della prova, della "quest" mitica e arricchisce
l'impostazione strutturale che innesca i processi di percezione e
di significazione del testo filmico, non andrebbe dimenticata,
accanto alla prospettiva strutturale innestata dal personaggio,
quella che emerge come un prosecuzione critica di questa
impostazione.
Ci riferiamo all'importanza accordata ad un simbolismo ricorrente
e - in qualche modo - "centrale", quello della nebbia,
preludio alla separazione dal caos primordiale, simbolo di una
fase di evoluzione, di una transizione del tempo, dell'io alle
prese con la propria differenziazione così come viene
rappresentato dagli "uomini - orso".
Marco Marinelli
THE BLAIR WITCH PROJECT |
The Blair Witch Project - Usa, 1999 |
Regia di Daniel
Myrick, Edoardo Sanchez, con Heather Donahue, Michael
Williams, Joshua Leonard distribuzione Filmauro |
Mentre nellhorror è solitamente possibile riconoscere
il problema della visione dellalterità, la presenza di un
ordine simbolico che non è lo stesso delle dimensioni note del
reale, Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez hanno creato un
"oggetto" cinematografico difficilmente classificabile,
unico e sorprendente, privo di spessore, che è agito da un
dinamismo cieco, irresponsabile, inconsapevole, lontano dai
modelli narrativi più diffusi, dalla materia inconscia, messa in
movimento da Dio, dal caso, da essa stessa o dal nulla tipica di
universi immaginari più tradizionali.
Il costruire se stessi nella forma della difesa
dellidentità personale lascia presto il posto a
preoccupazioni daltro tipo, centrate
sullindebolimento della pura presenza dellimmagine,
dissolta in un altro da sé che ha fatto parlare di azzeramento
della ricerca espressiva, intesa in quanto struttura narrativa o
evoluzione dei personaggi.
Nellimmagine "fantastica" solitamente il reale si
allontana, prende le distanze, da forma che era diventa
"ombra", possibilità oscura.
The Blair Witch Project vive del movimento
opposto, un movimento inafferrabile, inattuale, impassibile che
è rottura del tunnel di vetro dellidentità e dislocazione
dellordine convenzionale in un ordine "altro".
Nella volontà di avventura degli studenti Heather Donahue,
Joshua Leonard e Michael Williams, che si spingono nella foresta
di Black Hills per realizzare un documentario sulla leggenda
della strega di Blair, è possibile, inizialmente, riconoscere il
distacco di chi si chiama fuori dalla moltitudine, di chi ha
deciso di essere se stesso.
Ma la volontà di governare ed alterare la dura realtà, di
affermare la propria verità in un mondo che si mobilita in nome
di credenze comuni e concepisce lunica realtà del passato,
escludendo un passato che riposa nel passato, finisce per
coincidere con lesperienza della sfera atemporale del mito
e, quel che è più importante, con la sottrazione del mito al
proprio passato astorico, con loggettivarsi del mito in un
tempo che è movimento di rivolta e di distruzione.
Si è soliti affermare che il mondo moderno ha liberato
lindividuo e fatto trionfare il soggettivismo e
lindividualismo.
The Blair Witch Project tende a correggere
questa interpretazione: lessenziale qui è il gioco
reciproco e necessario di soggettivismo e oggettivismo e la
rottura delle esperienze dellindividuo dalla continuità
psicologica col passato.
In questo senso, la foresta di Black Hills può essere intesa
come una sorta di pianeta, abitato da una volontà più che
individuale che si incarica di distruggere lillusorio
progetto di continuare a girare linchiesta sulla strega di
Blair, di "oggettivare" e distanziare il passato, di
difendere lillusione del singolo in grado di scolpire se
stesso come una statua, teso a perfezionare la propria vita, ad
avere "cura di sé".
Spregiatori dellimmagine mistificante o alienante, Daniel
Myrick ed Edoardo Sanchez hanno creduto di lasciar sopravvivere
unimmagine esprimente una sorta di "presenza
illusoria", di nostalgia della presenza e hanno finito
forse inconsapevolmente per distruggere lo schema
di qualsiasi umanesimo, consegnandoci il ritratto di un tempo che
si illude ancora di poter utilizzare la tecnica per salvaguardare
la fantasmatica essenza del soggetto.
Marco Marinelli