a cura di Roberto Sturm e Marcello Bonati
Lawrence Wright |
Gemelli (Twins) |
Garzanti, pagg.175, L. 32.000 |
Ci sarebbe da spendere un fiume di parole per un libro come
questo, e forse non basterebbe ad illustrare tutti i temi, gli
argomenti, le implicazione che gli studi sui gemelli identici,
scientificamente definiti monozigoti, possono toccare.
Questi cloni naturali, perché sono gli unici essere umani con
DNA identico, aprono una serie di interrogativi che oltre al
fronte scientifico toccano il mistero della vita, il segreto
delle persone che poi, individualmente, diventiamo.
Ma gli studi sui gemelli identici separati alla nascita, su cui
molto si basa questo saggio, pone alla fine proprio
questo dubbio.
Siamo quello che nasciamo o quello che diventiamo? Quanto conta
la genetica e quanto lambiente?
Perché i figli adottivi assomigliano, anche caratterialmente,
più ai genitori biologici nonostante siano stati abbandonati
appena nati?
Perché i gemelli identici separati alla nascita che si
incontrano per la prima volta quaranta anni dopo, senza aver mai
saputo prima di avere un fratello gemello, si salutano allo
stesso modo, hanno le stesse inclinazioni, gli stessi gusti, gli
stessi interessi? Tutto questo nonostante siano cresciuti in
famiglie molto diverse.
Perché si arriva alla storia incredibile di due gemelli
monozigoti separati alla nascita, adottati da famiglie
differenti, vengono chiamati entrambi James, entrambi sposano una
donna di nome Linda, divorziano e sposano due Betty. I loro
primogeniti si chiamano uno James Alan e laltro James
Allen, ciascuno ha posseduto un cane di nome Toy.
Perché i gemelli separati sono molto più simili tra di loro che
gemelli che hanno condiviso lo stesso ambiente, la stessa
famiglia?
Su questi fatti vanno a cozzare le tesi degli scienziati
ambientisti, che invece sono oro per i genetisti. Probabilmente
la ragione non è né tutta da una parte né tutta da
unaltra, ma materiale per riflettere su questo argomento ce
nè fin troppo in questo saggio esauriente e scritto con
uno stile semplice al quale qualsiasi lettore comune può
avvicinarsi.
Dicevo del materiale per riflettere. Certo, ce nè tanto e
molto pesante. Fino ad arrivare, alla fine, ad una argomentazione
che investe il senso, la ragione stessa della vita.
Se le scelte che facciamo fossero solo frutto dei nostri geni?
Se fossimo indiscutibilmente quello che nasciamo e non quello che
diventiamo, cosa ne faremmo del concetto di libero arbitrio?
Una chimera inventata da noi uomini per non impazzire?
Roberto Sturm
Derek Raymond |
Come vivono i morti (How the Dead Live) |
Meridiano zero, pagg.192, L. 23.000 |
Di una bellezza terrificante, il terzo romanzo di Derek
Raymond dedicato al ciclo della Factory, penetra dentro
lanima del lettore, ne scuote le viscere.
Un noir che travalica la narrativa di genere, un romanzo
di valore assoluto che coinvolge, durante la lettura, tutti i
sensi, che fa traballare convinzioni che si credevano certe.
Questa volta il sergente lascia Londra per la provincia inglese.
Un intreccio di interessi, di vizi e di intrighi prende neanche
tanto lentamente forma, devastando la superficiale tranquillità
di Tonerby.
Ed è, forse, la solidarietà tra disperati che spicca su tutto,
una solidarietà cementata da drammi esistenziali quasi
insostenibili, da ricordi di morte che riconducono ad un passato
doloroso.
Lo stile, il linguaggio e latmosfera che aleggiano in Come vivono i morti ne
fanno unopera che ben difficilmente non lascerà traccia
nella memoria e nellanimo di chi avrà la fortuna di
leggerlo.
Roberto Sturm
AAVV, a cura di Jim Turner |
Lovecraft 2000 |
Sperling & Kupfer, pagg.357, L. 31.900 |
Ci sono due modi per creare un'antologia tematica: o si
commissionano le opere - e allora l'antologia funziona, sebbene
finisca con il diventare una più o meno pedissequa imitazione
dell'originale - o al contrario si raccoglie ciò che il proprio
gusto e la fortuna fanno trovare di quanto in cui, edito e
inedito, ci si imbatte. Jim Turner, editor della Arkham House,
per redigere un'antologia che almeno nelle intenzioni, avrebbe
dovuto essere ispirata al genio di Lovecraft, ha scelto il
secondo modello. I racconti sono di autori diversi, provenienti
da scuole diverse, e scritti con stili e moduli narrativi diversi
e pubblicati su diverse antologie: le mie preferenze vanno dal
bellissimo Le Pine Barrens di Paul
Wilson, all'ironicamente chandleriano Il
pesce grosso di Kim Newman, a un horror moderno con
scivolate nell'erotico e nello splatter - cosa che avrebbe fatto
inorridire il solitario di Providence - come Le sue labbra sapranno di assenzio di
Poppy Z. Brite; ma altre sorprese attendono, come 24 viste del M. Fuji, un classico moderno
di Roger Zelazny, un divertissment come il Modem
di Pickman di Lawrence Watt-Evans, e altri ancora.
Un'antologia che si legge con gran soddisfazione, con tutti buoni
racconti e di bravi autori, con vasta gamma di mondi e
panorami... ma un'antologia che è tutto, fuorché quello che si
legge nell'introduzione. Già. Perché di Lovecraft, a parte
alcuni casi meta-narrativi (e citiamo per tutti H.P.L. di Gahan Wilson, che ospita
addirittura, assieme al Nostro, August Derleth), nell'antologia
c'è ben poco, nonostante i funambolismi del curatore per
assicurarci del contrario. Tutto quanto avviene, infatti, avviene
per motivi diversi dall'assunto di base; alla nostra lettura di
chi ha trapassato le "soglie" genetiane, l'aspettativa
di riempire la lettura di segni e referenti lovecraftiani scade e
si disperde; mucillaggini, presenze, ombre, tentacoli e
mostricci, hanno qualche riflesso ma vivono di vita propria,
cioè sono tangenziali all'assunto dell'antologia; se Turner
avesse eliminato il tema lovecraftiano, avremmo avuto fra le mani
comunque una buona antologia. Infine: per analogia, mi tornata
alla memoria, dopo questa lettura, impresa similare che tentò
Gianfranco De Turris, diversi anni addietro, con l'antologia Gli
eredi di Cthulhu, edita dalle defunte edizioni
Solfanelli; un modo "italiano" per proporre Lovecraft
qui, in piena area mediterranea, lontano dalle suggestioni
statunitensi. E, al di là del valore delle due antologie -
valore che non è ovviamente comparabile - ancora una volta mi
sono trovato a pensare allo iato che si verifica nella
letteratura, a seconda delle fortune che reggono le sorti delle
cose: quando si potrà curare in terre italiote un'antologia del
genere per un grosso editore, in grado di promuovere un lavoro
anziché affossarlo?
Claudio Asciuti
Ruggero Pierantoni |
Verità a bassissima definizione |
Einaudi, pagg.267, L. 26.000 |
In uno dei saggi che formano Verità
a bassissima definizione, Ruggero Pierantoni
(saggista, scrittore, fisico e insegnante di percezione visiva)
s'interroga sullutilità di sapere il numero dei pixel che
formano la cravatta dei mezzobusti televisivi; posizione, la sua,
evidentemente eccentrica rispetto a coloro i quali vedono nella
(presupposta) adeguatezza percettiva un simbolo di veridicità;
ma soprattutto posizione che non dispiacerebbe a Montaigne, che
s'interrogava su quanto sappiamo delle cose prima di discuterne.
Con una scrittura che nulla toglie al rigore scientifico, ma non
rinuncia al piacere della narrazione, Pierantoni ci informa prima
e poi ci guida in un ampio dedalo di oggetti quotidiani, che la
pretesa "eccezionalità" di altri eventi sospinge al
margine della nostra percezione, ma che sono invece lo specchio
della nostra incapacità di riflettere sul reale. Le nefandezze e
gli inganni dell'alta definizione, l'infotografabilità del
Partenone, i luoghi delle stazioni ferroviarie (con un excursus
fra i libri a metà fra Borges e Truffaut), l'erranza dei morti
nel cimitero e nell'aldilà, le scenografie di d'Annunzio e
Sant'Elia, si manifestano dinnanzi a noi; svelandoci, per di
più, attraverso l'analisi architettonica degli stadi, gli
effetti psicologici sui percepienti-tifosi; il che, in tempi di
regressione alla fase calcioanale della gran massa, non è poco.
Da leggersi per chi sospetta che il reale sia soprattutto un
problema di definizione, e che uno stadio sia bello soprattutto
vuoto.
Claudio Asciuti
Michele Monina |
Furibonde giornate senza atti d'amore |
PeQuod |
Riedizione, leggermente ampliata, di un'opera prima uscita per
la prima volta nel 1998.
Gli undici racconti sono uniti da due fili conduttori: il primo,
molto labile, è quello della Televisione; il linguaggio dei
protagonisti di Monina, metafore e similitudini comprese, è
preso dal Grande Fratello, con qualche incursione nel cinema e
nel mondo della musica. Il secondo è lo stile: tutti i brani
sono scritti seguendo un flusso di coscienza senza punteggiature
e senza maiuscole, con i paragrafi (o unità grammaticali)
separati da una linea bianca. Il linguaggio di Monina è
decisamente efficace, addirittura accattivante, e le storie non
sono mai un pretesto,
una base per sostenere un discorso esclusivamente formale: al
contrario, il linguaggio diventa il mezzo per rivelare con
parsimonia una struttura che è comunque articolata. Monina non
abbozza schizzi di stile: racconta storie vere e proprie, storie
a volte struggenti, partecipate, in cui la voce narrante diventa
una specie di "telecamera" per mostrare allo
spettatore, chiedo scusa, al lettore, una trama comunque di
stretta attualità. Ottimo.
Franco Ricciardiello
Monina Michele |
Questa volta il fuoco |
DeriveApprodi, '99, L. 16.000 |
L'anno di Michele Monina. Anticipando di poco l'uscita di Aironfric
sulla collana Strade Blu della Mondadori, questo romanzo
breve segue a ruota la ristampa di Furibonde
giornate senza atti d'amore. Il tempo narrativo
presente segue il protagonista, Miklis, nell'arco di una notte e
del giorno successivo, sulla strada da Ancona a Roma per una
manifestazione politica.
Incastonati nel flusso principale della narrazione, diversi
episodi della formazione personale e sociale del ragazzo,
l'incontro con l'onorevole ex partigiano, l'esperienza politica
che si mischia con il gergo calcistico, la tragedia dell'amico
morto durante una manifestazione dei centri sociali.
Il linguaggio televisivo della precedente, bella raccolta di
racconti di Monina qui è riprodotto solo in parte, forse è meno
suggestivo ma più contestualizzato; si attenuta il flusso di
coscienza, ma aumenta la "coscienza". In bilico fra
esistenzialismo e nichilismo, fino al gesto finale quasi
gratuito, il gruppo di amici ci restituisce uno spaccato di vita
del nostro passato prossimo, osservata non già attraverso la
prospettiva moraleggiante del realismo, bensì con l'effetto
sorpresa del tempo frantumato, curvo, tagliato a fette da
flashback che sono addirittura preponderanti nella narrazione. Se
consideriamo con indulgenza il finale che lascia perplessi, forse
una dovuta concessione visto che il nome della collana è
"Vox Noir", abbiamo fra le mani una sorprendente
conferma della capacità evocativa di Monina.
Franco Ricciardiello