Illustrazione ©
Jeff Quan
La
testa dell'ufficiale giapponese esplose in una nuvola di minute particelle
che nel binocolo di Sayla apparvero color grigioverde.
Come il cadavere decapitato ruzzolò a terra il resto della pattuglia
(reclute PacRim che tendevano a perdere rapidamente coesione e a disunirsi)
si sparpagliarono velocemente nell'ombra e tra le macerie ai lati della
strada. Scomparvero tra le rovine prima che Sayla avesse l'opportunità
di puntare il mirino su qualche altra persona. Uno degli svantaggi di un
fucile a spire magnetiche era che sparava lentamente. Le armi da cecchino
a batteria usavano binari magnetici al posto della carica chimica per lanciare
una serie. Erano silenziosi, senza fiamma e lanciavano cariche attraverso
un tubo magnetizzato con una velocità iniziale che superava i 1.700
metri al secondo. A quella velocità le semplici palle di ferro sparate
a bruciapelo esplodevano all'impatto come piccole bombe. Un arma da cecchino
perfetta, virtualmente inutile per qualsiasi altra cosa.
Il che era una sfortuna, pensò Sayla, perché là sotto
con la pattuglia c'era uno dei grossi cani dei Jap. Abbattere il cane sarebbe
stata una buona cosa, si disse. Di solito, se c'era un cane con una pattuglia
giapponese lo portava l'ufficiale. Stranamente il cane lo portava un altro.
Un Rimmer? Doveva essere così. Le pattuglie non avevano mai più
di un ufficiale.
Con un gesto distratto all'unità terra aria appostata in cima la
palazzo al di là della strada, Sayla s'infilò su una spalla
il fucile a spire e si sporse in attesa verso l'orizzonte occidentale.
Un elicottero di sicuro era già in viaggio da uno degli eliporti
al largo. L'unità MTA avrebbe atteso che l'elicottero fosse visibile
per abbatterlo. Almeno si sperava. Nel frattempo forze di terra patriottiche
avrebbero rastrellato la zona in cerca del resto della pattuglia.
La tattica giapponese standard era di mandare una pattuglia per attirare
il fuoco e quando i patrioti colpivano inviare un elicottero per spedire
razzi e sventagliate di artiglieria leggera per tutto un isolato. Aveva
funzionato, una volta. I patrioti nord californiani stavano perdendo la
guerra. I giapponesi stavano spingendo le linee patriottiche lontano dalle
spiagge. Poi i patrioti cambiarono tattica, smisero di combattere nel modo
in cui volevano i giapponesi, smisero di ingaggiare lotte testa a testa
con le pattuglie e si inventarono un modo migliore.
Si trattava di un semplice calcolo matematico: c'erano milioni di arruolati
Rimmer ma c'erano solo pochi ufficiali giapponesi.
Logorio, così lo chiamavano gli ufficiali. I cecchini lo chiamavano
scappucciare i Jap. Quando vennero richiesti altri cecchini, Sayla smise
di cambiare le lenzuola in un ospedale da campo e si arruolò volontaria.
Sorridendo si fece una nota mentale di incidere la sedicesima tacca sul
calcio del fucile in duro poliestere, poi si spostò di lato dal
parapetto del palazzo, attraversò il tetto e si calò attraverso
il buco di un'esplosione nell'appartamento sottostante. All'interno si
accucciò per un attimo in ascolto di qualche rumore nel buio. Non
c'era rimasto molto dell'appartamento. Non ci rimaneva mai. Era stato l'appartamento
di uno strozzino. Tra le rivolte e i combattimenti questi erano i luoghi
che venivano colpiti più duramente.
Guardando attorno all'appartamento vuoto, suppose che gli avidi occupanti
erano fuggiti in Oregon. O forse no.
Si ricordò di un carico di strozzini con cui era venuta a contatto
la sua Brigata di Allah. Ricordò la loro auto, grossa e scintillante,
che lampeggiava alla luce delle loro torce e dei loro fuochi e che andò
a sbattere contro i corpi ammassati della Brigata. Si ricordò dell'uomo,
colpito a fuoco alle viscere e poi fatto a pezzi da Fratelli e Sorelle
urlanti. Si ricordò delle due donne. E della ragazza. La ragazza
era all'incirca della stessa età di Sayla, con occhi blu e capelli
biondo scintillante legati in una treccia leggera.
Alle donne e alla ragazza non fu permesso di morire con la stessa velocità
e con la stessa facilità dell'uomo.
Gli uomini dalla Nazione dell'Islam e la Coalizione dell'Aztlan organizzarono
le Brigate e i Corpi De Hidalgo. Questi uomini, che arrivarono nelle strade
dopo che la maggior parte dell'Oakland era già bruciata, sobillavano
le masse per rivoltarsi ai veri nemici. Dando bersagli e compiti specifici,
le folle in sommossa erano diventate un'arma e si erano spostate dai Project,
dai quartieri poveri, i quartieri neri e scuri, verso i quartieri degli
strozzini. Sayla, senza madre, probabilmente morta, era stata spinta in
una Brigata, fatta Sorella nella Nazione dell'Islam e messa a lavorare
in un ospedale da campo.
Sopraffacendo la polizia e la Guardia Nazionale, combatterono contro gli
altri: le milizie cristiane, la resistenza ariana bianca e le forze di
protezione coreane e cinesi. Per quando arrivarono i veri militari degli
USA quella che la TV chiamava delle sommosse era diventata una guerra.
I capi delle Brigate, i mullah, dissero che la maggior parte dei soldati
(bianchi, africani, latini, asiatici) si era rifiutata di sparare contro
altri Americani, aveva volto i propri fucili, i propri carrarmati e i propri
elicotteri contro i loro comandanti o contro l'un l'altro, poi aveva disertato
per unirsi ad una fazione o all'altra.
L'esercito non c'era più. Una settimana dopo che se n'erano andati
i soldati americani i giapponesi invasero la California.
I mullah dissero che la guerra si era estesa ad altre parti del paese:
New England, Florida, Texas, New York, perfino nell'Idaho, Montana ed Alaska.
Dicevano che i giapponesi erano solo una parte di una forza di pace dell'ONU,
insieme a scarti europei e russi imperiali. Comunque Sayla non aveva mai
visto niente al di là del suo cannocchiale che non fosse o giapponese
o Rimmer. Si diceva che i caschi blu degli scarti europei fossero in Florida
e a New York mentre i russi avevano atterrato in Texas ed in Alaska. In
California i Jap mantenevano la pace, ma il loro arrivo aveva spinto ad
unirsi le fazioni NoCal in lotta tra loro. Dicevano che i jap fossero anche
peggio degli ariani bianchi e degli asiatici californiani. I mullah dicevano
che i NoCal dovevano risolvere i propri problemi e che i jap non avevano
nessuno scopo qui.
Sayla sobbalzò al rumore inconfondibile del minicannone dell'elicottero.
Doveva già essere nelle vicinanze per essere arrivato così
presto, pensò.
Attraversò di corsa l'appartamento fuori della porta scardinata
in un corridoio largo e vuoto. Non vedendo alcun movimento nel corridoio
scuro si lanciò verso le scale che sapeva essere dall'altra parte.
L'elicottero dei jap avrebbe fatto esplodere ogni cosa nel raggio di cinquecento
metri. Avrebbe cercato la postazione dell'MTA prima che avessero trovato
lui.
E avrebbe cercato di uccidere il cecchino.
Al fischio del fuoco dei razzi si tuffò nella protezione relativa
del cemento rinforzato della scalinata. Un lampo eruppe dietro di lei.
L'aria sembrò cedere in avanti. Una concussione martellante riempì
il corridoio, sollevandola e spingendola.
Cercò di mantenere il passo, quasi ci riuscì quando colpì
il secondo razzo. Il piede le scivolò da sotto. Sentì che
cadeva. Con una calma distaccata notò che il fucile a spire probabilmente
era andato. Poi un grigiore vuoto, come il cielo sopra l'oceano prima di
una tempesta autunnale, si chiuse sopra di lei.
Sayla si mosse e si sentì
come se qualcuno stesse cercando di segarle a metà la testa proprio
sopra il naso. Si mosse di nuovo, mandando un dolore ancora più
forte lungo il braccio sinistro.
Serrando i denti si sollevò a sedere aiutandosi col braccio destro.
Non vedeva nulla. Era come se avesse la testa dentro un sacco nero. Sondando
attorno col braccio buono realizzò di non essere più sulle
scale. Quanto tempo era passato? Sollevò la testa per ascoltare.
Niente. Nessun colpo d'arma. Nessun elicottero. Si esaminò la testa
dolorante con la mano destra, trovando sangue secco e capelli appiccicati.
Doveva avere una contusione, pensò.
Amaramente si tastò il braccio ferito. Era difficile dirlo con certezza,
ma pensò che fosse rotto proprio sotto al gomito. Stringendo i denti
per il dolore sollevò gentilmente il braccio sinistro con la mano
destra e infilò la mano gonfia nello spazio tra due bottoni della
sua camicia da lavoro. I cecchini indossavano vestiti da lavoro nero e
Sayla era contenta di non dover indossare il vestito senza maniche e il
chador delle altre donne della Nazione dell'Islam. Un chador non ha bottoni.
Si appoggiò sulla schiena, ingoiando aria e fece un inventario veloce:
non trovava il fucile a spire e la fondina al suo fianco era priva della
pistola piatta da dieci millimetri. La mano scese verso uno stivale, trovò
il pugnale ancora nella guaina. Sayla non sapeva nulla sul combattimento
col pugnale, ma la sua presenza era comunque di conforto.
Tornando ad appoggiarsi indietro decise che doveva trovare il fucile e
poi aprirsi un passaggio verso la strada. Non sarebbe stato facile muoversi,
ma non poteva restarsene là. Nessuno si sarebbe arrischiato a cercare
un cecchino disperso che probabilmente poteva anche essere morto.
"Non puoi uscire," una voce d'uomo disse docilmente da qualche parte nell'oscurità.
Il respiro irregolare di Sayla si arrestò. Il dolore sembrò
ridursi avvolgendosi in un piccolo punto nelle viscere. Aguzzò la
vista nell'oscurità e la mano volò verso il pugnale nello
stivale. Con rapidità estrasse la piccola lama dal serramanico.
"E' tutto a posto. Non c'è bisogno di... preoccuparsi," disse
di nuovo la voce.
"Chi è là?" Tentò Sayla. "Sei uno Scabber?" Gli scabber,
sciacalli che non erano riusciti o non avevano voluto lasciare la zona
di guerra, erano sostanzialmente innocui. A volte aiutavano anche i patrioti.
"No."
Inghiottì. "Un patriota?" chiese poco convinta.
"No, neppure quello," rispose quietamente la voce.
"Cristo," sussurrò. "Un Rimmer del cazzo?"
"No," rispose la voce sempre in modo quieto, ma con più forza.
L'aria le uscì dai polmoni.
"Un jap." Le parole le uscirono col respiro e sembrarono spingerla più
profondamente nell'oscurità che sperava la inghiottisse.
"Non temere," disse. "Ho la gamba rotta. E ho perso le armi quando i razzi
hanno colpito questo posto."
Lo uccido.
Il pensiero riempì la testa di Sayla come il lampo di un razzo detonante.
Ma come? Il suo braccio sinistro era inutilizzabile. La sua unica arma,
il coltello, sembrava ridicolmente minuta. E se poi lui stava mentendo?
I jap mentono continuamente. Lo sapevano tutti.
"L'unica porta in questo posto è seppellita da troppe macerie. Il
tetto del corridoio è crollato, credo."
Non avrebbe dovuto credergli, lo sapeva. Ma perché sarebbe rimasto
là se poteva fuggire? Anche con una gamba rotta lei avrebbe
trovato il modo di muoversi. E un jap non ci sarebbe riuscito? E perché
lei era ancora viva? Perché lui non...?
"Voglio arrendermi," disse il giapponese da dentro la sua oscurità,
quasi rispondendo alle domande solo pensate di Sayla. "A te."
Fissò silenziosamente all'oscurità vuota, incerta del suo
udito.
"Hai capito? Voglio arrendermi"
Arrendersi? I jap non s'arrendono, si disse. Non faceva parte della
loro religione, o qualcosa del genere? Un istruttore ne aveva parlato alla
loro unità una volta, aveva detto qualcosa sul come un giapponese
che s'arrende non può andare nel paradiso jap. Anche i mullah dicevano
cose simili. Morire in battaglia rappresentava un biglietto per il paradiso,
dicevano.
"I jap non s'arrendono," rantolò Sayla.
Lui rise. Un suono morbido, basso, triste.
"Vi dicono questo? Che non ci arrendiamo?" disse alla fine.
"Lo sanno tutti."
"Sì," disse e poi rise di nuovo. "Suppongo che sia così,"
continuò. "Tutti sanno tutto anche di voi americani."
"Non ho mai visto un prigioniero jap," disse in tono di sfida. "Un sacco
di Rimmer, ma nessun jap."
"E perché pensi sia così?"
Che domanda stupida, pensò Sayla e stava quasi per dirlo. "Perché
i jap non s'arrendono," ripeté.
Rise di nuovo. Il suono le fece battere gli occhi come contro un colpo
di vento gelato proveniente dall'oceano.
Dalla voce poteva dire che stava scuotendo la testa. "Forse gli altri.
E' la religione di molti. Credono che morire per l'Imperatore garantisca
l'ingresso nel..." si fermò. "...lo chiameresti paradiso. Non so.
Credo."
"Io ero solito credere nell'umanità, nella fede, la speranza e la
gloria di essere umano," disse. "Ma ho perso la mia fede. Non so
cosa sia la gloria. Ci insegnavano che la guerra fosse la gloria. Mio padre
dice che questo insegnamento è nuovo e vecchio allo stesso tempo."
Sayla non disse niente. Come poteva essere che qualcosa fosse nuovo e
vecchio. Perché mai il jap le stava dicendo tutto questo?
"Poi tutto ciò che rimane è la speranza, no? Speranza in
qualcosa al di là..." Non parlò per un lungo periodo. "Posso
sperare in un posto al di là di tutto questo orrore e tristezza?"
disse alla fine, la voce più bassa e roca. "Non lo so."
A Sayla arrivarono dei suoni, tagliavano l'oscurità, l'aprivano.
Al buio il jap stava piangendo.
I jap non s'arrendono. Lo sanno tutti. E come è vero Dio i jap non
piangono.
Lei non piangeva. Anche quando la perdita e la paura si abbatterono
su di lei come una doppia marea, e lei desiderava riavere cose che non
riusciva neppure a ricordare e dimenticare cose che ricordava benissimo,
anche allora le lacrime rimasero lontane.
Rimase seduta, ad ascoltare il soldato giapponese che piangeva debolmente,
tutti e due divisi dal muro vuoto dell'oscurità.
Lo scoppiettare di piccole
armi da fuoco fece scattare Sayla; s'era addormentata. Ad occhi spalancati
s'allungò disperatamente nel buio. Era difficile dirlo con certezza,
ma sembrava che la sparatoria si stava avvicinando.
"Vengono da questa parte," una voce uscì dalla stanza buia davanti
a lei, facendo eco ai suoi pensieri.
Il soldato giapponese. Non aveva sognato di lui, del suo viso? Strizzò
gli occhi nel buio, cercando di rintracciare la direzione della sua voce.
"Amici tuoi," disse il giapponese. "Saranno contenti di trovarti, penso.
Felici di trovare anche me, credo." "Sì, " disse Sayla, le parole
che le raschiavano la gola secca. "Proprio felici di trovarmi. Ma tu sei
morto..."
Le parole le erano uscite quasi automaticamente. Erano tante le volte che
seduta con altri patrioti si era parlato su cosa avrebbero fatto se avessero
messo le mani su un soldato giapponese. Ma trecento metri era la distanza
più vicina che Sayla era arrivata ad un giapponese. A sparare da
un appostamento la morte ha un'immagine senza colori e senza suoni. Le
dita si allentarono attorno al coltello.
"Sì, suppongo che lo faranno," replicò quietamente. "Di sicuro
non succede spesso che voi americani trovate un ufficiale imperiale giapponese.
Vivo. Non ne vengono più molti quaggiù. Solo quelli che hanno
avuto da dire coi superiori."
Quello che diceva era sensato. Poi le si affacciò un altro pensiero:
Aveva già ucciso un ufficiale jap. Questo, quello che in qualche
modo aveva mancato, doveva portare...
Il cane.
"Cane?" Disse inconsciamente, le dita che si stringevano di nuovo attorno
al coltello.
"Sì." Rispose immediatamente. "Lei sta qui con me."
Un gelo tagliente, come un proiettile di ghiaccio, sembrò provocarle
un foro proprio attraverso il petto. I grossi cani erano nuovi per la guerra.
Tutti sapevano che gli animali allertavano le pattuglie jap della presenza
di imboscate di patrioti. Per scappucciare i jap occorreva ora una distanza
maggiore e più attenzione. Ma quei cani di novanta chili potevano
anche uccidere.
Se la voleva uccidere, il cane sarebbe stato sufficiente come qualsiasi
fucile o pistola. Forse era meglio. Al buio il cane non l'avrebbe mancata.
"Troverò un'uscita," annunciò, cercando di alzarsi in piedi,
mantenendo la schiena alla parete. "Puoi continuare e scagliarmi contro
il cane se vuoi." Si sollevò a metà, puntando nel buio il
coltello minuscolo, preparandosi per il comando del jap, per l'attacco
dell'animale.
"Sì, capisco. Non puoi... credermi," disse il soldato giapponese
dopo un momento. "La porta è alla tua destra. La stanza non ha finestre.
Penso sia un ripostiglio." Era di nuovo calmo, poi proseguì. "Non
posso ucciderti. Ho perso le mie armi e il cane," trasse un sospiro profondo.
"Sta morendo."
Sayla si fermò a considerare la cosa. Le piacevano i cani, spesso
portava del cibo ai cani randagi che vivevano oltre il perimetro della
Compagnia. La faceva stare male quando altri patrioti usavano quei poveri
vagabondi per il tiro al bersaglio. Il jap stava mentendo?
"Che ha?"
"Colpita. Un proiettile, credo. Nel basso addome."
Aveva visto soldati colpiti al ventre nell'ospedale. Era una brutta cosa.
Sempre.
Gemendo per il dolore infilò il braccio inutilizzabile ancor più
profondamente nello spazio tra i bottoni sulla sua camicetta. Si spostò
sulla sua destra, spostandosi lentamente lungo il muro e cercando col braccio
buono la porta.
Le dita trovarono lo stipite e si allungò attraverso tutta la lunghezza
del ferro gelido della porta per trovare una grossa sporgenza di forma
arrotondata. Il jap aveva detto che la porta era bloccata. I jap mentono.
Ma la porta era dove aveva detto che fosse.
Sayla ruotò la maniglia e spinse. Niente. Appoggiò la spalla
destra e le dette una mezza spinta. Niente di più. Il jap non aveva
mentito. Qualcosa bloccava la porta dall'altra parte.
"Mi spiace di non poterti aiutare," disse con calma il giapponese.
La rabbia salì in lei a queste parole spingendo da parte il dolore.
"Be', forse dovevi pensarci prima di decidere di invadere il mio paese,"
disse. "Le cose andavano abbastanza bene prima..." Un suono quieto e acuto
le bloccò le parole. Ci volle un attimo prima che Sayla identificasse
il rumore. Il cane.
Parole, parole giapponesi in tono rassicurante seguirono il guaito del
cane che proveniva dall'oscurità.
"Ho qualche istruzione medica." Disse Sayla. "Forse posso dargli un'occhiata.
Al cane, voglio dire."
"Lo faresti?" disse la voce nell'oscurità.
Si mosse verso il suono della voce poi s'arrestò. E' una pazzia,
pensò. Non aveva idea cosa ci fosse nell'oscurità. Forse
il jap aveva un coltello e voleva solo che gli si avvicinasse. Perché
mai doveva aiutare un cane giapponese.
"Se non puoi muoverti," domandò per saggiare, "com'è che
sai dov'è la porta?"
"E' da dove sono venuto qua dentro con te. Prima che la seconda scarica
di missili facesse cadere il soffitto."
Fece di nuovo un gemito. "Mi hai portato qua dentro? E come? Voglio dire,
se la tua gamba è del tutto rotta?" E perché?
"Dovevo fare qualcosa. L'elicottero stava tornando. Questa stanza è
al centro del palazzo. E' il posto più sicuro."
Ci furono nuove scariche da qualche parte e Sayla s'arrestò. Perché
ci mettevano tanto a ripulire della pattuglia jap? Perché l'aveva
aiutata?
"Dovevo fare qualcosa," ripeté l'ufficiale giapponese. "Non potevo
lasciarti morire."
"Cosa?"
"Non potevo," sussurrò dall'oscurità.
Perché no? E' quello che avrebbe fatto lei, se lo avesse trovato
incosciente tra le macerie.
"Huh," gemette.
"Eri così indifesa," disse. "E così bella."
Indifesa. Bella?
"Puoi dirmi il tuo nome?"
"Cosa?" Domandò in tono brusco, strizzando gli occhi nel buio. Perché
mai un jap voleva conoscere il suo nome?
Bella, la parola dell'uomo si ripeteva da sola nella mente di lei.
Forzò gli occhi a restringersi per il sospetto che sapeva doveva
mantenere. "Guarda, potrei, potrei dare un'occhiata al tuo cane,
ma non c'è modo che tu conosca il mio nome," disse.
"Non c'è modo."
"Certo, è naturale," disse in modo quieto. "Capisco."
Fece un brontolio e si sporse in avanti. Il dolore al braccio s'era placato.
Pensò che forse non era spezzato, solo una frattura. "Dì
qualcosa, così so da che parte andare," fece.
"Ti andrebbe di conoscere il mio nome?" disse debolmente il giapponese
dall'oscurità.
Si arrestò, scrutando incredula nel buio.
"Non mi interessa qual è il tuo nome," disse in tono rabbioso. Presto
sarai morto.
"Sì. Penso che non abbia importanza," fece lui, come realizzando
la verità che lei era stata sul punto di pronunciare.
Si attese che dicesse dell'altro. Dopo un po', dato che lui non diceva
niente, riprese a strisciare con cautela sul pavimento. Non aveva idea
sul perché stesse facendo tutto questo per l'ufficiale jap. E per
un cane jap. Colpito al ventre, il cane sarebbe morto molto presto. Anche
se fosse sopravvissuto per un po', quando alla fine li avrebbero trovati,
i patrioti avrebbero scappucciato il cane.
"La uccideranno. Lo so."
Le parole si diffusero nell'oscurità e per un momento di nuovo Sayla
pensò che avesse risposto ai suoi pensieri.
"Lo so che se i tuoi ci trovano per primi lo faranno. Ma sta soffrendo
tanto," disse di nuovo. "Non lo lascia vedere, naturalmente," proseguì,
"i cani sono così. Lo so. Allevo cani dove vivo con la mia famiglia.
Vivevo. Prima."
La sua voce si svuotava nell'oscurità. Sayla attese un attimo, scrollò
le spalle rispetto al fastidio, rispetto a questo giapponese chiacchierone,
e nei confronti di se stessa che stava ad ascoltare.
"La uccideranno," disse di nuovo il giapponese. "E uccideranno me."
Certo, be', muoiono tutti, pensò Sayla. Un altro jap morto non significava
nulla per lei.
Dei rumori provenienti da fuori spostarono la sua attenzione. Drizzò
le orecchie ascoltando con attenzione.
Il sollievo le scivolò via. La squadra di pulizia si avvicinava.
Ma un rumore, un mugolio acuto che si stendeva sopra un rombo basso, non
le era familiare. Con ansia passò in rassegna i ricordi cercando
di dargli un senso.
"TTCA," disse il giapponese.
"Cosa?" il termine non aveva punti di riferimento.
"Trasporto truppe su cuscinetti d'aria," disse. "Hovercraft."
"Hover..." La parola non le era familiare. "Non abbiamo niente di simile."
Fuori ci furono scoppi di piccole armi da fuoco.
"No," disse il giapponese dopo un momento. "Fanno parte di una pressione.
E' per questo che un secondo ufficiale.. che io ero con la pattuglia.
Eravamo una, la chiameresti una pattuglia avanzata."
Le sue parole non avevano senso. Una pattuglia jap era semplicemente una
pattuglia jap, si disse, sempre la stessa. Doveva mentire.
"Avanzata? Rispetto a che?" chiese.
"Una colonna anfibia. I TTCA. Migliaia dell'ONU. Forze di coalizione, soprattutto
rimmer, ormai saranno atterrate. Via aria, via TTCA, con mezzi anfibi."
"La gente è diventata insofferente a combattere voi americani,"
continuò. "Le famiglie diventano sempre più stufe di funerali.
Troppi morti. Ci era stato detto che sarebbe stato facile, che voi eravate
tanto occupati a combattervi l'un l'altro che la... pacificazione
sarebbe stata questione di mesi." Si fece di nuovo silenzioso e lei non
parlò. "Ma sono tre anni e abbiamo lasciato appena la spiaggia
e ci sono stati troppi morto. Troppi."
La sua voce era cambiata, suonava strozzata e tesa. Sayla pensò
che stava per piangere di nuovo.
"E così spingiamo di nuovo, ma senza speranze di successo, non per
finire. Il comando imperiale lo sa. Il comando vuole sono una bella dimostrazione
per l'ONU prima di abbandonare questa guerra."
Si trovava a un passo o due da dove l'oscurità la separava da una
realtà che non aveva neppure considerato. Che cosa le stava dicendo
questo ufficiale giapponese?
Dall'interno dell'oscurità un singhiozzare profondo rispose alla
sua domanda senza voce, un singhiozzare che si faceva sempre più
forte finché non erose e non sbriciolò il muro nero tra di
loro. Ricordi delle notti sul pavimento dell'ospedale da campo guizzarono
dietro ai suoi occhi. Vide di nuovo mutilati e moribondi, udì i
lamenti e le urla, ricordò altri soldati piangenti.
Strizzò gli occhi nell'oscurità, desiderava muoversi, seguire
il suono delle sue lacrime. Ma non poteva. Poteva solo restare nell'oscurità
ad ascoltare i suoni della guerra esterna che si facevano più vicini,
sempre più vicini, superandoli e lasciandola sola, lasciandoli soli.
Il cane guaì, un suono
alto e acquoso seguito da un respiro profondo e raccapricciante. Sayla
sapeva che l'ufficiale giapponese teneva in grembo la testa grossa e piatta
dell'animale, ma anche così vicino non riusciva a vederlo.
Tornò a rivolgere la sua attenzione cieca al cane. I cani giapponesi
erano, qual era la parola?, genealterati, si ricordò di una
riunione da campo quasi dimenticata. Non essendo mai stata così
vicina a uno di essi, non si era mai resa conto quanto fossero enormi.
Toccando il fianco dell'animale si meravigliò della solidità
della grandezza. I cani erano anche molto più veloci dei cani normali,
muovendosi con una strana fluidità. Ad osservarli attraverso il
cannocchiale notturno gli avevano sempre fatto pensare più a dei
gatti che a dei cani.
"Ampliamento sinattico," si ricordò di ciò che l'ufficiale
della riunione aveva detto alla loro unità. "Una parte del sistema
nervoso di ogni mammifero è qualcosa chiamata sinapsi," la donna
aveva detto loro con la monotonia di chi ha pronunciato quelle parole già
molte volte.
"Come un relais elettrico, una sinapsi invia comandi dal cervello al corpo.
Il cervello da il comando, la sinapsi inoltra il messaggio al corpo.
Questo significa," aveva continuato, "che il tempo tra il pensiero e l'azione
è stato accorciato. Attenzione, all'inizio era una frazione di tempo
minima, ma ora, con questi cani, è ancora più corto. Così
non sono più come Fifì o Bobby che avete a casa." Aveva detto
gettando occhi annoiati sulla decina o poco più di giovanotti. "Assomigliano
più a delle macchine. Questo ricordatelo," aveva finito con
la voce che finalmente si alzava per l'enfasi.
La vita della macchina, pensò Sayla, stava sfuggendo attraverso
un buco grosso quanto un pugno sul fianco.
L'ufficiale jap teneva fermo l'animale, sussurrando qualcosa in giapponese,
mentre lei inginocchiata accanto sondava attorno alla ferita con le dita.
Non poteva fare niente.
"Mi.. mi spiace," si scoprì a dire, sorpresa dalle sue stesse parole.
Le dispiaceva veramente per il cane, veramente per l'uomo.
"I miei hanno una fattoria," rispose lui in un sospiro. "Viviamo accanto
ad un fiume in quella che voi chiamate la Cina occidentale occupata.
Facciamo crescere pesce e granturco. E io allevo cani pastore. Per il bestiame
e per le pecore. Me l'hanno data per questo. Coi cani ci so fare."
Quello che stava dicendo non significava niente per Sayla. Tutto quello
che sapeva dei giapponesi era che si trovavano qui, in California. Non
sapeva niente della Cina, niente di fattorie e di bestiame e di pecore.
"Lei non è come i miei cani," disse. "Ma un cane è sempre
un cane, credo. Non ha importanza il come. All'interno non puoi
cambiare ciò che realmente è."
"Non ne hanno molti neppure come i nostri," concordò Sayla.
"No," rispose.
"Non so nemmeno perché li dovete avere qui," disse Sayla. Non le
rispose. Rimase in silenzio per un lungo tempo.
"Perché stiamo perdendo questa guerra, un'altra guerra, contro
voi americani, e i cani non tornano a casa nei sacchi di plastica," disse
alla fine, la voce un sospiro bassissimo che doveva sforzarsi per udirla.
"Perché nessuno piange la morte di un cane."
Ricadde di nuovo nel silenzio e Sayla era stata colpita troppo dalle sue
parole per parlare. Gli ufficiali patrioti lo dicevano sempre che
i jap stavano perdendo, ma nessuno ci credeva veramente. Ce n'era sempre
tanti, e tanti rimmer. Sayla non era neppure sicura di sapere cosa significasse
vincere (o perdere) la guerra. Come le rovine e le basi, i morti e i feriti,
la guerra c'era e basta.
"Non posso fare niente per lei, per il tuo cane," disse Sayla.
"Lo so," rispose l'uomo, la voce un semplice sospiro nel buio. "Ma è
una buona cosa che siamo qui con lei, ora. Non credi?"
Non disse niente, ma annuì nel buio. Il pelo corto e spesso dell'animale
era soffice sotto la sua mano. Sotto le sue dita l'animale era caldo e
respirava e stava morendo. No, tutt'altro che come una macchina, decise,
del tutto diverso dal bersaglio visto attraverso la sfumatura verde del
suo cannocchiale notturno.
Quando il cane esalò un respiro rantolante finale e il suo torace
massiccio rimase immobile, Sayla si aspettò che il giapponese piangesse
di nuovo. Poteva sentire la mano dell'uomo che accarezzava la pelliccia
pesante dell'animale, ma niente altro. Aprì la bocca, poi la richiuse.
Poi, come se venissero da tanto lontano, sentì i singhiozzi che
si era spettata, Solo che venivano dalla parte sbagliata e un calore pungente
si trovava sui suoi occhi, nella sua gola. Una mano si chiuse sulle sue
attraverso la pelliccia dell'animale e lei non le ritrasse.
Passò molto tempo prima che le lacrime si arrestassero.
Sayla chiuse gli occhi e
ascoltò il tuono distante. Il suono le ricordò le tempeste
invernali di quand'era bambina. Si ricordò di quando stava stesa
durante la notte, sveglia ad ascoltare il tuono che copriva i suoni duri
dei quartieri poveri apparentemente infiniti di Oakland. Le immagini si
raccolsero nella sua mente, immagini di una ragazzina che si alzava presto
dopo queste tempeste, che mangiava i suoi cereali a colazione in una veranda
sul davanti di una casa popolare che guardava meravigliata alle strade
nebbiose e vuote ripulite della loro solita sporcizia.
Riaprì gli occhi. Non c'era nessun tuono. E la strada era ingombra
delle rovine della guerra. Mimando il tuono reale scariche rombanti dell'artiglieria
navale giapponese cercavano i loro bersagli da qualche parte, lontano,
a nord.
Al di sopra, una luce argentata aveva iniziato a spingere via le stelle
dal cielo notturno. Il calore pesante dell'ufficiale giapponese premeva
contro il fianco destro di Sayla. In qualche modo la sua vicinanza non
la preoccupava.
Era febbricitante, esausto, debole. Qualche rapida infezione era entrata
nel suo corpo dove l'osso s'era infilato attraverso la carne della gamba.
Era completamente disarmato e si era tolto anche l'armatura tattica. Poteva
prendere benissimo il suo coltello e tagliargli la gola.
Ma non lo avrebbe ucciso, stava invece cercando di salvarlo.
Incapace a restare in piedi senza aiuto, doveva passare un braccio sulle
spalle di lei e usare un manico da scopa come gruccia sotto l'altro. Con
la mano buona Sayla afferrò il suo polso e si tirò su contro
il suo braccio. Era più alto di poco e pesava meno di lei.
"Shhh," sussurrò quando il movimento lo fece lamentare. "Devi stare
calmo. O ci trovano sul serio. Dobbiamo arrivare alla Brigata, non possiamo
farci trovare da un'unità." I combattimenti si erano allontanati
dalla loro area, ma lei era sicura che qualcuno, giapponese o patriota
non aveva importanza, si trovava ancora nelle vicinanze.
Aveva sentito che la piccola unità di comando era situata da qualche
parte sulle colline sopra Oakland. Era sicura che non sarebbe stato difficile
trovarla. Non poteva tornare alla sua base. Lo avrebbero ucciso. Ma alla
Brigata, erano svegli. Dopotutto era da dove venivano gli Ufficiali di
Informazione Culturale e gli altri. Avrebbero voluto vivo questo jap.
"Sì. Calmo. Capisco." Le sue parole uscivano lentamente, quasi con
lo stesso ritmo delle raffiche distanti di artiglieria.
Sta morendo. Il pensiero le echeggiò nella testa come una pallottola
di rimbalzo. Prima che forzassero, assieme, la porta per aprirla e riuscissero
a fuggire dal ripostiglio buio, Sayla aveva steccato e fasciato la sua
gamba. Ma non poteva fare niente di più. Lui aveva perso la sua
cassetta medica e lei non aveva medicinali. Ma se riusciva a portarlo alla
Brigata, si sarebbero presi cura di lui. Una volta che i jap se ne sarebbero
andati dopo la guerra lo avrebbero fatto tornare a casa, perché
no?
Sayla per un momento non riuscì a dire niente. Mentre lavorava alla
sua gamba, lui le aveva parlato di casa sua, del fiume veloce, dei campi
di fiori selvatici che si stendevano senza fine verso le montagne alte
e innevate. Niente guerra, le aveva detto, nessun soldato, nessuna città
distrutta. Era difficile immaginare un posto del genere.
"Spostiamoci," fece, sforzandosi di tornare ai propri compiti. "Assieme
siamo perfetti, eh," disse, concentrandosi sul passo. Il mio braccio sinistro
rotto, la tua gamba destra rotta? Perfetti.
"Ora devi cercare di sollevare quella gamba rotta proprio così..."
Si scostò quando sentì la sua mano che le sfiorava il mento
e sollevò il viso.
"Grazie," le disse, così vicino che sentì il calore del suo
respiro sulle guance, sulle labbra.
"Sì," disse, tirandosi indietro, confusa. Si spostò di nuovo
per aiutarlo. Si sforzarono assieme per sollevarlo dritto. Spinse il proprio
peso in avanti e poi indietro tirando mentre lui cercava di mettersi in
piedi.
"Il mio libro," sussurrò in modo rauco.
"Cosa?"
"Il mio libro. M'è caduto di tasca. Mi aiuteresti a trovarlo?"
"Libro? Che genere di libro?"
"E'..." disse, la voce che diventava un respiro e poi tornava a salire
mentre diceva:
"One moment in Annihilation's waste,Poi tacque e lei rimase a dondolare leggermente al ritmo della sua voce. Le sue parole sembravano cose fisiche, che le ruotavano attorno, nella luce fioca.
One moment of the Well of Life to taste--
The Stars are setting, and the caravan
Starts for the dawn of Nothing...
For in and out, above, about, below,
'Tis naught but a magic shadow-show,
Play'd in a box whose candle is the Sun,
'Round which we phantom figures come and go." [*]
"Fermi, brutte teste di
cazzo, fermi!" La voce urlava da un palazzo crollato che bloccava la
strada di fronte a loro.
Fu quasi un sollievo. Avevano fatto poco meno di dodici isolati e Sayla
si stava chiedendo quanto sarebbero riusciti ad andare avanti. Lei stava
bene, ma l'ufficiale jap era rigido. Ce la mettevano tutta per passare
lentamente attorno ad ogni ostacolo lungo la strada. Questa montagna di
mattoni crollati e cemento sembrava insuperabile.
"Mani alzate, alzate!" urlò la voce.
Chiuse per un attimo gli occhi, con forza, poi li riaprì e lentamente
sollevò la mano buona.
"Lui... lui non è armato," sussurrò. Non è neppure
come gli altri, avrebbe voluto dire. E' diverso, avrebbe voluto urlare.
"Sono un patriota," urlò alla fine. "Lui è mio prigioniero."
"Mani in alto, patriota," le urlò la voce. E allontanati dal tuo
prigioniero, Allontanati. Via!"
Poi una voce più profonda, più misurata, prese il posto della
prima. "Fai così, sorella. Non puoi sapere cosa hai con te. Non
c'è modo di saperlo, Sorella. Alza le mani e stai lontana."
"Forza, patriota," urlò l'altra voce.
Sayla fissò le macerie, la mente che galoppava, chiedendosi se il
possessore della seconda voce riuscisse a capire quello che di certo l'uomo
che urlava non riusciva a fare. Accanto a lei l'ufficiale jap vacillava
sulla sua gruccia improvvisata. Fece un passo o due lontano da lei sollevando
in alto un braccio e il più possibile l'altro.
"Posso sollevare solo il mio braccio destro," disse lei. "La sua gamba
è rotta. Nessuno di noi è armato," aggiunse.
"Così va bene, Sorella," fece la seconda voce. "Ma devi allontanarti
di più dal prigioniero. Questo è un ordine patriota."
Inghiottì, nonostante il nodo alla gola. Vedevano benissimo che
era azzoppato. Perché non veniva ad aiutarlo?
"E' un ufficiale," urlò. "Lui conosce cose che può
raccontarci..." La sua mente brancolava in un'oscurità più
soffocante di quella nella stanza chiusa e si sentì sommersa da
una paura estranea.
"Permesso di stare col prigioniero alla Brigata!" urlò. Ma dove,
poi? Dove sarebbe andato lui? La sua visione di un fiume scintillante e
di montagne innevate recedette in un'oscurità avvolgente.
"Permesso negato, patriota," rispose istantaneamente la prima voce. "Ferma.
Lontana."
"Devi fare come ti ordinano," le sussurrò accanto a lei.
Si volse e la paura l'attanagliava all'interno, contorcendole il viso per
l'indecisione. "Ho paura. Di quello che faranno."
"Sì. Ho paura anch'io."
La sua mascella si muoveva silenziosamente e i suoi occhi passavano lungo
il contorno di lui, lungo i suoi occhi. "No," sussurrò. "No," disse
mentre arrivavano le lacrime, quell'umidità non ancora familiare
per lei che la sorprendeva. "Non voglio. Non posso." Sussurrò e
non si allontanò, ma si avvicinò a lui lungo quei pochi passi
che li separavo.
Quando la sua testa esplose fu come se fosse di nuovo in cima ad un palazzo
e vedesse le cose attraverso il grigio-verde del suo cannocchiale. Una
voragine sembrò aprirsi improvvisamente tra di loro e la sua testa
scomparve in una nuvola incolore.
Il silenzio del cecchino riempì le sue orecchi e un movimento lungo
la strada catturò il suo sguardo. Con sorprendente chiarezza vide
sollevarsi un braccio e fare un unico gesto dalla cima di un palazzo.
Il jap morto crollò a terra e lei sapeva che doveva muoversi, doveva
scappare prima dell'arrivo dell'elicottero. Temeva che fosse troppo tardi,
comunque. Il silenzio era stato rimpiazzato da un urlo distante e terrorizzante
come quello dei razzi che cadevano in modo infinito dal cielo.
Stava nel palmo della sua
mano buona, un grumo cerocristallino rotto circondato da migliaia di fibre.
Potevano chiedersi cos'era successo all'impianto, chiedersi cos'era successo
a lei, ma Sayla non se ne preoccupava più.
Su un punto rialzato che guardava ad ovest sull'oceano vuoto si mise a
pensare a quello che le avevano detto. L'esperto della Compagnia aveva
detto che non poteva credere a tutto ciò che il jap aveva detto
di sé, della sua famiglia. O di lei.
Semplicemente il jap voleva farle credere d'essere un suo amico. Con un
amico poteva infiltrarsi, era la parola che aveva usato.
Un altro jap come questo, aggiunse il suo comandante dei cecchini, era
arrivato con una ragazza in un'unità a Monterey. Li avevano accolti
in un bunker della comunità. La ragazza portava la valigetta medica
del jap. Solo che non era una valigetta medica. Era, e qui fece una pausa,
guardando di sbieco all'esperto. Era un'atomica tattica da campo, continuò
poi, senza spiegare altro.
Tutto dell'ufficiale jap era irreale, le dissero. Come il cane, le dissero,
anche lui era stato alterato, le sue sinapsi aumentate, la sua ghiandola
adrenalinica ingrandita. Le ecchimosi a forma di calcio di fucile all'estremità
della gamba erano inconfondibili, disse l'esperto. Il jap s'era spezzato
la gamba da solo. Lo psicologo dei patrioti scosse la testa affascinato.
A malapena umano, aveva mormorato il suo comandante. A malapena umano.
"E questo congegno," l'esperto aveva detto dell'oggetto luccicante che
aveva in mano, "è simile al congegno che si trova nella testa dei
cani." In un cane, aveva spiegato, era un regolatore attivo. Il congegno
avrebbe costretto il cane a rispondere ad una serie enorme di comandi e
sradicare la resistenza dell'animale, spegnendo perfino il suo istinto
di sopravvivenza.
"In un uomo," l'esperto aveva detto, parlando più a se stesso che
a Sayla, "viene fatto crescere nel talamo e opera su altri livelli. Analizza
dati sovraliminali dai sensi del suo ospite. E' un amplificatore empatico.
Magnifica l'abilità naturale umana a leggere le emozioni degli altri
da piccoli cenni nella voce, dai movimenti, dall'espressione, perfino dall'odore.
"L'ospite," continuò l'esperto, fissando affascinato la cosa, "può
poi agire su cenni sensuali ricevuti dal suo bersaglio, magnificati un
centinaio di volte." Si era poi voltato verso di lei, strizzando gli occhi
come ricordandosi che era presente. "Con questa nella sua testa, quel jap
poteva quasi leggerti il pensiero."
Ma non era il suo pensiero che aveva letto.
E non aveva mai cercato di farle male, non avevano trovato alcun esplosivo
nascosto dentro di lui.
Con una mossa veloce gettò via il congegno e l'osservò mentre
cadeva in mare, le sue fibre che mimavano i movimenti della vita. Rimase
a guardarlo per molto tempo. Poi mise la mano nella tasca sul petto ed
estrasse il libro e guardò al piccolo spazio nero nella mano.
"Fede, speranza e gloria," sussurrò Sayla, ricordando un tocco lieve
nel buio. Poi col pollice apri la borchiad'ottone che lo chiudeva guardando
verso ovest all'acqua e ricordando le sue parole. "One moment of the
Well of Life to taste--and the caravan/Starts for the dawn of Nothing..."
Poi sollevò la copertina del libro.
E guardò in un istante di luminosità bruciante che rivaleggiava
quella del sole. Quello che Sayla era stato, quello che era stato Sayla,
se ne andò.
Dal Rubaiyat di Omar Khayyam:
Un momento nel deserto dell'Annichilimento, un momento del Pozzo della Vita da gustare... Le stelle tramontano, e la carovana parte per l'alba del Nulla... Perchè dentro e fuori, sopra, attorno, sotto non è altro che un magico spettacolo di ombre, recitato in una scatola la cui candela è il Sole, attorno a cui noi, figure di fantasmi, arriviamo e partiamo. [^]
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