(Questa
relazione è stata diffusa come indirizzo laterale alla
conferenza annuale del Southern Humanities Council, presso la
University of Alabama di Huntsville, nel Febbraio del 1993. Il
tema della conferenza era
Inner
Space, Outer Space: Humanities, Technology, and the Postmodern
World.
E
stata poi ristampata su LOCUS e su THE NEW YORK REVIEW
OF SF)
Ho l'onore, il piacere e
il privilegio di essere qui a far parte di questa conferenza. Il
privilegio, perché noi scrittori di fantascienza non veniamo
invitati spesso a prender parte ai dibattiti che sorgono dal
mondo accademico, e anche perché a uno scrittore fa sempre
piacere uscire di casa.
Lasciate che inizi con
qualcosa che non è proprio originale, ma fa bene ripeterla
all'incirca ogni generazione: la letteratura non è un fatto
individuale, ma è una cosa collettiva. La letteratura è il
raccontare storie e si debbono avere delle storie da raccontare.
E' un mito (ecco un'altra forma di raccontare) che noi
scrittori ci inventiamo queste storie. Di fatto noi le troviamo.
Sono il lavoro di intere civiltà, non di uomini o donne soli. Il
mito dell'artista come un individuo alienato e sradicato a volte
potrebbe essere valido (se l'arte è una proprietà privata,
anche la creatività dovrebbe esserlo, e dobbiamo dire che ci
tagliamo le orecchie per provarlo) ma oggigiorno con le arti che
diventano sempre più frammentate e mercificate è importante
recuperare l'artista come un essere sociale, di fatto un essere
singolarmente sociale.
E' stato Marx a dire (il 18
Brumaio, credo) che sono gli uomini e le donne a fare la storia,
ma non la fanno esattamente a loro piacimento, la fanno usando la
materia che hanno a portata di mano. La stessa cosa avviene con
la letteratura, che in fondo è la storia scritta dal basso. Ed
è vero soprattutto con quella figliastra della letteratura,
piccola e sudicia, che è la fantascienza.
E si arriva così alla
relazione tra la tecnologia (di sicuro una creazione sociale) e
l'immaginazione (ugualmente sociale, secondo il mio punto di
vista).
Ultimamente va di moda
guardare all'immaginazione come rappresentasse delle ali per la
civiltà e alla tecnologia come a dei piedi per essa, spesso dei
piedi d'argilla. E' allo stesso modo giusto, e a volte più
utile, guardare alla tecnologia come un mezzo per dare le ali
all'immaginazione. Si provi ad immaginare Melville senza
baleniere, Willa Cather senza la ferrovia e l'aratro, Kerouac
senza automobili, Mark Twain senza battelli a vapore o
Bobbie Ann Mason senza televisione.
Come scrittore e come
lettore (e tutti gli scrittori una volta sono stati dei lettori e
lo sono ancora) vorrei porre l'attenzione su una relazione
particolare tra una particolare tecnologia e un particolare regno
dell'immaginazione: Il viaggio spaziale e la fantascienza.
La fantascienza e
Huntsville si perdono indietro nel tempo, già prima che
Huntsville fosse Huntsville. A quando era Peenemunde.
Di recente mi sono
imbattuto in una storia interessante che ho trovato in una
vecchia rivista di fantascienza pubblicata durante la seconda
guerra mondiale. L'articolo era scritto da Willy Ley, un tedesco
che aveva avuto il buon gusto e l'accortezza politica da farsi
esiliare e arrivare in America prima del periodo nazista. Era
stato segretario della Società Missilistica Tedesca durante la
Repubblica di Weimar. Era diventato un rifugiato politico in fuga
dai nazisti, forse era ebreo, forse era comunista, forse era un
umanista, non lo so. Comunque aveva osservato gli eventi nella
natia Germania dagli USA con grande interesse e, devo aggiungere,
con grande perspicacia. Il suo articolo si trovava in un pulp
fantascientifico ma non era un racconto immaginario. Aveva un
titolo antiquato e sgraziato: "V-2--Rocket Cargo Ship."
Iniziava così:
Una storia completa e dettagliata del laboratorio tedesco di ricerca missilistica vicino a Peenemunde sulla costa baltica non sarà mai scritta. Non ci sarà nessuno in vita per scriverla. La maggior parte di coloro che ne conoscono la storia completa sono già morti e quelli che sono ancora in vita moriranno prima della fine della guerra.
Forse si trattava di un
desiderio da parte di Willy Ley; comunque sappiamo che si
sbagliava. Gli scienziati provenienti da Peenemunde non solo sono
sopravvissuti ma hanno ricevuto onori e sono stati protetti dai
loro antichi nemici. Hanno fondato i programmi spaziali sia degli
Usa che dell'Unione Sovietica. Il ruolo di Werner von Braun è
conosciuto a tutti. Hermann Oberth, che da alcuni viene indicato
come colui che ha sviluppato Peenemunde, e di sicuro ha messo le
mani nella sua direzione, si trovava a Cape Kennedy per il lancio
dell'Apollo 11.
Willy Ley speculava nel suo
articolo sui possibili futuri dei razzi a propellente solido in
opposizione a quelli con propellente liquido (come la maggior
parte degli scienziati conosciuti del tempo, preferiva il
propellente liquido) e concludeva che l'unico ostacolo nella
costruzione di un razzo a propellente liquido a lungo raggio (o a
grossa altezza) era lo sviluppo di pompe del propellente ad alto
volume. Ricordava poi una conversazione con Oberth nel 1929,
quand'erano colleghi alla Società Missilistica Tedesca, quando
c'era u piano, o almeno una proposta, di costruire razzi per le
consegne postali. La progettazione richiedeva un razzo piuttosto
grosso, allo scopo di raggiungere una portata di almeno
cinquemila chilometri e Ley notava che questo avrebbe comportato
un carico utile di almeno cinquecento chili. Il che sembrava
eccessivo per un razzo postale nel 1929.
Nel corso di quella
conversazione del 1929, Ley chiese ad Oberth:
"Lei pensa, Herr Professor, che ci sarà il bisogno di razzi che portino cinquecento chili di posta per oltre novecento chilometri" Oberth mi fissò (racconta Ley) col sorriso che i pedagoghi di un tempo riservavano alle persone che chiamavano "mio caro giovane amico" e disse dopo un attimo: "ci sarà bisogno di razzi che portino cinquecento chili di dinamite per oltre cinquecento chilometri."
Oberth,
naturalmente, consciamente o inconsciamente, stava parlando delle
V-2. La prima V-1 (non esattamente un razzo, più un missile a
reazione) era apparsa sull'Inghilterra una settimana dopo il D
Day. In tutto un qualcosa come duemila di queste
"buzz-bombs" caddero su Londra uccidendo circa 6.000
persone. Fu, come il bombardamento americano di Bagdad, o il
bombardamento alleato di Dresda, un'operazione terroristica
imprecisa diretta verso la popolazione civile.
Come molti di noi, Willy
Ley provava sentimenti contrastanti verso a tutto ciò. Quando
sentì parlare per la prima volta delle V-2, descritte da Winston
Churchill, basandosi su rapporti di spionaggio, come lunghe
dodici metri con una circonferenza di tre metri e mezzo e che
decollavano immediatamente (in opposizione alle V-1 che venivano
lanciate da una rampa) Ley capì subito cos'erano e cosa
significavano. Scrisse:
Come Arthur C. Clarke della British Interplanetary Society, mi scopro ad essere lacerato. Per quanto riguarda la guerra, Clarke desiderava che le voci fossero semplice propaganda. Ma per quanto riguarda la ricerca missilistica futura, un razzo di venti tonnellate con una gittata di duecento chilometri e oltre sarebbe stato una vera briscola. Si sarebbe potuto puntare ad esso e dire, "Sì, si può fare."
Le
V-2 erano meno precise delle V-1 e meno efficaci come strumento
di terrore. Ma recavano un grosso segno premonitore. Ley conclude
nel suo articolo (scritto all'incirca nel 1945) che "Le
prime navi spaziali sono già state costruite, anche se non sono
state usate come tali. Sì, occorre ammetterlo, la V-2 è la
prima nave spaziale."
Il curatore della rivista
aggiunse un cappello introduttivo: "Basandoci sulle
sorprendenti informazioni di Ley, siamo dell'idea che il primo
tentativo di raggiungere la luna sarà fatto entro un decennio. E
come desiderate fare il viaggio?"
Si sbagliava, ma solo di
dieci/quindici anni. L'articolo di Willy Ley apparve in una
rivista che era lei stessa una nave commerciale puntata verso le
stelle, Astounding, curata da John Wood Campbell, il quale
combinava in un'unica persona le debolezze e la forza di quella
che definiamo come la "Golden Age" della fantascienza.
Le radici tecnologiche di questa letteratura affondano negli anni
venti e trenta, e le sue radici sociali affondano in un periodo
ancora precedente, l'età vittoriana. Era una letteratura in cui
gli uomini erano uomini e le donne erano... be', le donne non
erano. Era una letteratura in cui le conquiste e il futuro
dell'umanità venivano associati, senza vergogna e con forza, con
la cultura bianca, maschile e occidentale. Era una letteratura in
cui la scienza veniva venerata con timore quasi religioso: gli
scrittori di fantascienza e i lettori avevano, per la maggior
parte, una fede infantile e pervasiva nel potere della
tecnologia; credevano che qualsiasi problema venisse creato dalla
tecnologia poteva essere risolto da una tecnologia maggiore e
più massiccia. Le opere erano spesso scritte in modo
indifferente e sciatto, di solito povere nella caratterizzazione,
i romanzi di solito erano costruiti da stringhe di racconti
(richiamando i primi romanzi inglesi che dovevano far finta di
essere lettere o resoconti di viaggi)... in altre parole, erano
deformati. La letteratura della fantascienza della cosiddetta
"Golden Age" aveva tutti questi difetti ed altri
ancora, ma aveva una grossa virtù. Nel fondo del proprio animo
aveva un grosso sogno. Il sogno del viaggio spaziale.
Ora, la SF è ben altro che
questo particolare periodo; inizia, secondo molti critici (e chi
non potrebbe essere d'accordo), con il capolavoro ancora vivo di
Mary Wollstonecraft Shelley, Frankenstein. Racchiude la
critica sociale fabiana di Wells e i pazzi sogni meccanici di
Jules Verne.
E ha messo sempre assieme
svariati tropi e temi e immagini: robot, computer, viaggi nel
tempo, armi laser, altre dimensioni, olocausto nucleare e, come
dicono sulle scatole dei cereali, molto e molto ancora. Ma al
cuore di tutto questo c'era il sogno del viaggio spaziale. Era
ciò che Brian Aldiss ha definito la corda principale della SF.
Ed era una corda stupenda. Vibrava con la certezza che il destino
dell'umanità, il nostro destino, fosse al di là di questo
piccolo pianeta, reso ancor più piccolo nel secolo precedente
dalle avventure della scienza, là, tra le stelle.
Durante gli anni '50 il
sogno di Willy Ley e Arthur C. Clarke, di Tsiolkovsky e
Goddard... era condiviso, se non proprio da milioni di americani,
almeno da decine di migliaia di ragazzi impazienti. Mi si
permetta di parlare per un momento come uno di quei ragazzi, dato
che non fu come critico o come scrittore che feci per la prima
volta quel sogno. Fu da ragazzo. Arrivai a Clifford Simak e a
Arthur C. Clarke e a Ray Bradbury attraverso il libri di Oz,
potenti creatori di sogni a loro volta. Fatemi raccomandare
l'originale a tutti coloro che conoscono soltanto l'Oz di
Hollywood del film con Judy Garland; l'Oz di Frank Baum
(l'originale Dorothy di OZ) aveva moltissimi angoli oscuri e
un'ampia traccia principale, che poi è ciò che i bambini
cercano in un libro. Ma i libri di Oz erano decisamente roba per
bambini e quando arrivai a dodici anni o tredici ero pronto per
viaggi più seri. Li trovai nella fantascienza. Non nella space
opera ma nel materiale alto e risonante della Golden Age. Per
allora, la metà degni anni cinquanta, era uscita dalle riviste e
si ritrovava nei tascabili, i carri coperti da trasporto
letterari della mia generazione. Il che non vuol dire che fosse
comunque molto facile da trovare. Stamattina stavo partecipando
ad un simposio su "Fugitives and Lee Smith and Bobbie Ann
Mason" e su ciò che significava essere Sudista. Una cosa
che senza dubbio significa essere sudisti è che devi andare da
qualche altra parte per trovare ciò che stai cercando. Iniziai
questo processo in un modo semplice, all'inizio della mia
adolescenza, facendo l'autostop con i miei amici per Evansville,
nell'Indiana, al di là della fangosa Mason-Dixon line, per
ripulire i negozi di libri usati dalle antologie di Boucher e
Merril che non si trovavano in una piccola città del Kentucky.
Non eravamo dei bibliofili.
Leggevamo questi libri. Li segnavamo. Li scambiavamo. Li
passavamo in giro. Li consumavamo. Se li collezionavamo era solo
per un breve periodo. Li riducevamo in concime.
Ciò che ci piaceva era il
fatto che non fossero libri per bambini, ma neppure libri per
grandi. Erano come i fumetti o l'erba; erano come il rock and
roll prima del rock and roll.
Non erano rispettabili e di
certo non erano letteratura. E' per questo che appare ironico
sentire gli scrittori di SF (compreso me stesso) lamentarsi
perché non vengono presi sul serio. Ma non era questa l'idea
principale?
La fantascienza apparteneva
personalmente ad ogni ragazzo che la scopriva. Era
trasformazionale in quanto trasformava il modo in cui pensavamo
che significasse essere umani. A suo modo era rivoluzionaria.
Imparammo un po' di scienza
da essa. Penso sia stato Campbell (o forse il suo predecessore,
Hugo Gernsback) a dire che una delle funzioni della fantascienza
era quella di insegnare la scienza ai ragazzi. (Presumibilmente
le ragazze o non ne avevano bisogno o la conoscevano già.) Io
imparai che a gravità zero le cose non avevano peso ma
mantenevano la massa; imparai che le navi spaziali non hanno
bisogno di ali e possono procedere per inerzia per sempre nel
vuoto. Imparai che le stelle hanno una distanza che va al di là
della vita umana. Imparai abbastanza da sciuparmi Star Trek e
Star Wars, questo è sicuro. Quello che imparai era tutto
sbagliato, naturalmente; penso ancora secondo i vecchi paradigmi
newtoniani; sfortunatamente non c'è nessuna Astounding attualmente
che insegni la fisica quantistica e la relatività ai ragazzi e
alle ragazze, probabilmente perché non c'è nessuno che la
capisca.
Imparammo un po' di
scienza. Ma, abbastanza sorprendentemente, imparammo molto sulla
letteratura. Anche da questa sub-letteratura disprezzata.
Imparammo ciò che la letteratura può fare. Che può sollevare
il cuore. Che può insegnare e raccontare e significare. Che può
cantare, Che può librarsi in volo. Il fatto che abbia sempre
desiderato fare lo scrittore lo devo alla fantascienza.
Una delle poche virtù di
questo tipo di fantascienza, di quella che possiamo definire la
fantascienza classica, è che (al suo meglio) è fatta di storie
che puoi raccontare anche molto dopo che i personaggi si sono
staccati come foglie secche. Queste erano storie non di
personaggi, ma di idee. Ricordo la prima volta che lessi la
conclusione di Guide del tramonto (Childhood's End)
di Clarke, dove i figli della Terra partono tutti per le stelle e
i genitori li guardano partire. Non sarebbero tornati mai (C'è
qualcuno che si chiede perché gli adolescenti amassero questa
roba?) Mi ricordo Anni senza fine (City) di Simak,
quando un uomo e un cane, bio transformati in una forma di vita
capace di sopravvivere su Giove si rifiutano di venire
ritrasformati: Il cane perché non non vuole più essere un cane,
l'uomo perché non vuole più esser un uomo. Ricordo la storia
nelle Cronache Marziane (Martian Chronicles) di
Bradbury che parla di un padre che ascolta alla radio che la
guerra nucleare è scoppiata sulla terra. Prende i figli che
hanno sempre desiderato vedere i "veri" Marziani e
mostra loro le loro immagini riflesse in un canale. Naturalmente
sarebbe potuta essere una storia sul Kenya, o sulla California.
Anche se scritta da dei liberal come Bradbury, la SF classica e i
suoi sogni di viaggi spaziali avevano radici nel passato, nel
colonialismo e nel destino manifesto. E' stata accusata d'essere
escapista e cosa c'è di più escapista del lasciare il proprio
mondo? Eppure era ben altro che i sogni di Kipling e le fantasie
di Burroughs. Era lo specchio in cui non solo cercavamo i nostri
domani ma quello in cui li creavamo. Le nostre immaginazioni
ricevevano le ali dalla tecnologia. Non c'era alcun dubbio tra di
noi che la leggevamo (o allo stesso modo tra quelli che la
scrivevano) sul fatto che saremmo andati su altri mondi. Durante
la nostra vita. E ci riuscimmo!
Ma la fantascienza classica
della Golden Age aveva anche toni più cupi. In Anni senza
fine l'umanità colonizza il sistema solare ma sono i robot e
i cani alterati geneticamente che ereditano questo impero. Gli
umani hanno sviluppato l'agorafobia e hanno paura dei viaggi.
Verso la fine un dottore permette che un suo amico muoia perché
non vuole, non può, fare il viaggio fino Marte per salvarlo.
Clarke affronta lo stesso tema in Against the Fall of Night.
La gente si è dimenticata del perché abbiano viaggiato verso le
stelle. Solo un adolescente, il primo nuovo umano nell'arco di
secoli (un ragazzo, naturalmente), si chiede cosa ci sia là ad
attenderci. Dovrà andare da solo. "In this universe night
was falling..." ["In questo universo scendeva la
notte..."] così ha scritto Clarke, nella prima poesia che
abbia toccato il mio animo.
La paura era che, avendo
fatto i primi passi, avremmo vacillato. Che avremmo sviluppato il
viaggio spaziale e poi avremmo perso la grinta o la voglia o la
capacità. Che la terra sarebbe diventata il nostro posto
sovraffollato. Era un po' come se, dopo aver passato il Capo di
Buona Speranza e attraversato l'Atlantico, le caravelle, quegli
strumenti rivoluzionari per attraversare i mare a lunga distanza,
fossero state convertite in hotel galleggianti o vascelli
costieri. O come se, dopo aver atterrato sulla luna, avessimo
trasformato i nostri razzi Saturno in esibizioni di parchi
tematici e perso i piani dei grossi motori F-1 che ci avevano
lanciato nello spazio e che non erano più tornati indietro.
Questa è una storia di fantascienza che nessuno ha mai scritto
perché, almeno negli anni '50, era inimmaginabile.
E invece, non è proprio
quello che è successo?
Il
1959 vide un forte declino nella circolazione delle riviste di
fantascienza che continuò per tutti gli anni '60. Ci sono coloro
che dicono che successe perché il sogno era stato rubato:
iniziando con lo Sputnik e Gagarin e continuando poi con i
Mercury e gli Apollo, il viaggio spaziale aveva cessato d'essere
proprietà dei sognatori ed era entrato nel dominio pubblico (o
anche peggio, in quello governativo). Si ritrovava nei workshop
di Hunstville e Pasadena, e sulle prime pagine dei giornali. La
scienza era rimasta, ma era scomparsa la fiction e, con essa, il
mito. Si era spostato dalle pagine di Astounding a quelle
di Life con le pubblicità della Chevrolet e dei
frigoriferi.
C'è una qualche verità in
tutto ciò, ma non penso che sia tutta la storia o gran parte di
essa. Anche all'inizio degli anni '60 (e gli anni sessanta della
trasformazione iniziarono nella seconda metà del decennio)
l'odore del cambiamento era nell'aria. Stavamo entrando in una
nuova era e i ragazzini furono i primi a capirlo. Coloro che se
ne accorsero (o ne sentirono la puzza) prima dell'arrivo vero e
proprio furono proprio quelli che leggevano le riviste di SF, i
sognatori del sogno della SF. Loro (noi) iniziarono a fare altri
sogni.
Fu qui che smisi di leggere
fantascienza e mi spostai verso la letteratura "seria".
Nel mio caso fu la Beat Generation a portarmi in una subcultura
che aveva a che fare più col jazz che con la missilistica, una
cultura che era spesso estranea (o si sentiva estranea) con la
tecnologia. Gli anni '60 furono quelli in cui andammo sulla Luna.
Quelli in cui l'Apollo nacque, s'ingrandì, invecchiò e morì
(in quanto gli anni '60 continuarono negli anni '70). L'Apollo fu
il trionfo tecnologico più grande, ma non l'unico, di quella
era. Ci sono stati i Pioneer e i Mariner, i Viking e i Voyager. A
seguito di questi viaggi, quello che la fantascienza aveva
semplicemente immaginato, io lo avevo visto coi miei occhi: gli
anelli di Saturno, le Lune di Giove, le pietre e la semplice
sabbia di Marte.
E' ironico il fatto che
quegli stessi anni '60 furono il decennio in cui le limitazioni
della tecnologia furono comprese appieno. Fu il decennio che vide
la fine della fede arrogante nella nostra onnipotenza, della
supremazia bianca, eurocentrica e sì, maschilista. Il sogno
santificato storicamente ma aberrante e crudele del dominio del
mondo bianco occidentale morì in Vietnam. Ucciso dall'eroismo e
dal sacrificio dei vietnamiti. Qui a casa nostra ci ritrovavamo
in lotta contro noi stessi in quanto i neri e le donne lottavano
per il diritto all'autodeterminazione e, più importante, per
essere se stessi. I limiti alla crescita apparvero
drammaticamente visibili, dall'inquinamento all'espandersi delle
zone urbane. Ma non c'è bisogno che descriva gli anni '60, Tutti
noi siamo stati formati, in un modo o un altro, da quel decennio
decisivo di trasformazione. Come successe per la fantascienza. Il
viaggio spaziale fu associato in molte menti, e non del tutto
arbitrariamente, con la guerra e con il dominio. La NASA si
definiva come l'organizzazione non militare più grande del
mondo. Eppure l'Apollo era una chiara parte della guerra fredda.
E come fa ad essere non militare un'impresa che ha in maggioranza
impresari militari? Gli astronauti (con l'importante eccezione di
Armstrong) erano dei militari e quant'è civile un test civile
per pilota per aerei militari? Questo, non per denigrare
l'Apollo, che penso sia stato uno dei più grossi successi umani
(umani, non soltanto maschili, occidentali, militari o quasi
religiosi) di questo secolo, se non di ogni altro secolo.
Sto semplicemente
raccontando come lo vedevamo allora.
Rimasi deluso
dell'atterraggio sulla Luna. Che diavolo ci faceva Richard Nixon?
Era un ostacolo, non solo perché lo ritenevo (e lo ritengo
ancora) un criminale di guerra, ma perché se solo avesse potuto
avrebbe cancellato l'intera faccenda e lo sapevano tutti quanti.
Eppure ero emozionato. L'osservavo sapendo esattamente cosa
significava quando noi (umani, non solo uomini, non solo
americani) facevamo i primi passi su un altro mondo. Sapevo che
avevamo fatto un passo che non sarebbe stato annullato.
E non ci dimentichiamo che
gli anni '60 non sono stati del tutto anti tecnologici. Non è
che eravamo dei semplicioni luddisti. La copertina di Whole
Earth Catalogue era la foto della terra che sorgeva sulla
luna, scattata dall'Apollo 8. Il punto di vista di Whole Earth
era quello stesso della NASA.
La fantascienza rifletteva
questa ambivalenza. Non poteva far altro.
Sia come scrittori che come
lettori eravamo parte dei tempi. Molti scrittori FS odierni sono
maturati, come Bill Clinton, negli anno '60. Fummo formati e
trasformati dalle stesse forze. Per di più le inalammo. La
fantascienza negli anni '60 aveva nuovi progetti. Non era più
una letteratura per ragazzi o esclusivamente maschile. Ursula
LeGuin e Joanna Russ portarono una nuova coscienza femminista;
c'erano sempre state delle donne scrittrici, ma avevano scritto
con nomi maschili. Scrittori neri come Samuel Delany e una nuova
generazione di scrittori bianchi resi sensibili al razzismo, non
solo portarono una migliore comprensione della diversità, ma
aggiunsero i neri alla letteratura. Alcuni grossi nomi come
Disch, Malzberg, Bester, Dick, Ellison (molti con ancora un piede
nella Golden Age) iniziarono ad esplorare cosa succede alla
fantascienza se aggiungi valori letterari come personaggi
complessi e buona scrittura; quando fai una seconda e una terza
stesura. Nonostante le proteste (e la gente si sta ancora
lamentando del fatto che la SF si faccia "troppo
letteraria"), il genere non esplose, e non implose o morì.
Per la prima volta gli scrittori di fantascienza non erano prima
di tutto scienziati. Erano principalmente scrittori, e poi
scienziati (se avevano una qualche scienza, in quanto la scienza
stava diventando come i latino o il greco per un gentleman
inglese del XIX secolo, onorata sul campo). Negli anni '60 la SF
generò il suo primo movimento letterario, la New Wave, modellata
i parte sulla Beat Generation, l'ultimo movimento letterario
occidentale cosciente ad avere successo, con collegamenti
umanistici più stretti di quelli scientifici, e con molto più
in comune con i ragazzi delle strade o la guerriglia sulle
montagne che con gli scienziati che stavano a Houston, Pasadena e
Huntsville. Lo dico senza fare apologia. Penso sia stata una cosa
buona. Eppure, ad ogni passo in avanti, qualcosa andava perduto.
Nel caso della fantascienza, quello che si perdeva era la corda
principale, il sogno del viaggio spaziale.
Tutto questo accadeva un
quarto di secolo fa e vorrei dire che entrambe le metà della
interfaccia, fantascienza e viaggio spaziale, si trovano ad
attraversare tempi duri. L'Amarezza da Post-Apollo. I tempi duri
sono più evidenti alla NASA e nella comunità scientifica. Come
gli anni '60 si avviavano verso il termine, gli USA stavano
perdendo la loro prima guerra e cercando di comprarsi una
popolazione ribelle interna con programmi sociali dispendiosi.
Anche se era stato lui (e non Kennedy) ad immaginare per primo il
viaggio sulla Luna, Lyndon Johnson non volle più sentir parlare
(e ritenne che il Congresso non volesse sentir parlare) di altri
programmi spaziali. Il lancio sulla Luna rimase solo quello, un
lancio sulla Luna. Dopo l'Apollo non tornammo più. La NASA
orientò le sue vele per concentrarsi sul programma dello shuttle
che Arthur C. Clarke sperava diventasse "il DC-3 dello
spazio"; già prima del disastro del Challenger questo che
era uno dei più gentili tra i critici lo chiamava "il DC-1
e 1/2." Invece di rivolgerci alle stelle facevamo cuscinetti
a sfera e lanciavamo satelliti spia. Nel frattempo si scoprì che
il programma spaziale sovietico, che era sembrato tanto attraente
e, di fatto, era stato così importante, si stava soffocando nel
proprio rigurgito.
La situazione, o il fato,
della fantascienza attualmente appare, a prima vista, migliore.
Il mercato librario si è allargato drammaticamente, alcuni
direbbero grottescamente, da 1200 a 1500 titoli l'anno che
riempiono intere pareti nelle librerie Dalton e Walden. Ma più
della metà non è proprio fantascienza, bensì fantasy,
attualmente commercializzata sotto l'unica supercategoria SF.
Anche lo SFWA è diventato lo SFFWA. Non è che voglia denigrare
il fantasy (be', forse lo sto facendo)... almeno, non dovrei
farlo. Almeno la metà della mia produzione è fantasy. Ma la
maggior parte dell'odierna fantasy è derivativa, roba molto
discutibile, riscaldata da imitazioni di Tolkein o da copiature
di Moorcock, che guarda non a possibili futuri, ma a passati
magici impossibili, abitati da fate sfacciate e elfi, da tetri
nani e da troll istupiditi; dove cloni di Re Artù si fanno
strada tra montagne fumanti di letame di unicorni e draghi. Non
è una letteratura di nuove idee.
Nella SF
"corretta" (se mi è permesso usare questo termine) i
cambiamenti apportati dagli anni '60 sono stati permanenti: Non
è più una letteratura maschile: almeno metà degli scrittori
maggiormente premiati sono donne. Non ha più paura o ritrosia ad
esplorare problemi sociali. Il livello generale di scrittura è
molto più alto (anche se ha a volte una certa uniformità, un
po' come il mainstream.) Il movimento fantascientifico più
recente, il Cyberpunk, include alcuni buoni scrittori: Bill
Gibson, Bruce Sterling, Pat Cadigan sono i migliori che abbiamo.
Ma va detto che essi esplorano lo spazio interno al posto di
quello esterno, una realtà virtuale distopica, generata al
computer. E gli autori di SF "hard" come Bear e Benford
di solito trattano il viaggio spaziale come un risultato passato
e non come una nuova avventura.
La SF va alla grande al
cinema ma è roba piuttosto trasandata, almeno se confrontata con
le grandi giornate di 2001, che almeno aveva tentato di catturare
il vuoto, il silenzio e la freddezza dello spazio. Cos'è
"Star Wars" se non la Battaglia d'Inghilterra in pompa
magna, completa di ali e effetti sonori, con Alec Guiness che
giocava a fare Churchill? Senza sigaro.
Cos'è "Star
Trek" se non un Motel Six nello spazio, che va dove un Motel
Six non è mai stato prima, con un equipaggio politicamente
corretto che indossa tute da riscaldamento dell'NBA, in una
organizzazione sociale che fa eco alla marina inglese dei tempi
di Nelson?
E ogni generazione è più
trasandata della precedente. Di sicuro è inutile andare contro
tutto questo. Mi sto rivelando come un musone che ricorda con
nostalgia la mondezza della sua infanzia e guarda male alla
mondezza di oggi. Non è che la legge di Sturgeon, che dice che
il novanta percento di ogni cosa (compresa la SF) è mondezza,
sia mai stata abolita.
Eppure penso si debba fare
una precisazione. La fantascienza non è più sovversiva neppure
per caso, non è più il posto dove la gente cerca nuovi futuri
possibili ed eccitanti. Penso che senza la sua corda principale
del viaggio spaziale, la SF abbia sofferto una crisi di
identità. Una crisi che spero stiamo per superare, in quanto io
ho speranze per il futuro, non solo della fantascienza, ma del
programma spaziale in generale.
Molti anni fa, dopo aver
scritto tre romanzi, due dei quali fantasy e uno di storia
alternata, e ritrovandomi accettato in qualche modo sia dai
lettori che dagli altri scrittori, decisi di scrivere un romanzo
di fantascienza convenzionale, all'antica, se preferite,
autentico.
Su che cosa? Su un viaggio
su Marte. Cos'altro?
Il mio romanzo, Voyage
to the Red Planet, ha degli elementi satirici. La NASA e la
marina statunitense sono state svendute per pagare il debito
nazionale, e il primo viaggio su Marte è stato intrapreso da uno
studio cinematografico di Hollywood, nella speranza che gli
incassi ai botteghini ripaghino il viaggio
Ma il libro ha elementi
seri. La nave che usano è un vascello USA-URSS rimasto da un
precedente viaggio cancellato. La storia si fa più seria man
mano che va avanti, coi personaggi e l'autore stesso che entrano
nel viaggio, insegnandomi direttamente cos'era che mi interessava
maggiormente della SF e cos'era che soprattutto mi mancava. Il
viaggio, almeno ad un livello, una vera avventura
fantascientifica sui primi passi su un altro pianeta.
Ora, abbastanza
interessantemente (in quanto non voglio pretendere di aver
lanciato una moda) gli ultimi anni hanno visto un'esplosione di
romanzi dui viaggi su Marte. Alcuni buoni, alcuni cattivi, alcuni
indifferenti e uno grandissimo.
Abbiamo Mining the Oort
Cloud di Fred Pohl; Beachhead di Jack Williamson; Mars
di Ben Bova. E, il migliore di tutti, Red Mars di Kim
Stanley Robinson.
Robinson porta qui un po'
di discussione. E' uno dei migliori scrittori di fantascienza
'letterari'; è accademicamente esperto (ha una laurea in
inglese) e viene attaccato ripetutamente, oserei dire
invariabilmente (e quasi sempre ingiustamente), per non essere
Realmente SF. Eppure è Robinson, vorrei far notare, che ha
iniziato l'opera di restauro della 'corda principale' della
fantascienza, con un'impresa elefantiaca di tre romanzi sulla
colonizzazione di Marte.
Il primo, Red Mars,
parla dei Primi Cento, il gruppo di coloni attentamente
selezionati inviati su Marte all'inizio del prossimo secolo e
presenta uno sguardo affascinante sulle contraddizioni politiche
che si sviluppano tra i coloni e i paesi e le multinazionali che
li hanno inviati, e tra coloro che vogliono preservare Marte e
coloro che vogliono sfruttarlo e terraformarlo.
Green Mars e Blue
Mars portano avanti la storia.
Robinson porta in questa
impresa monumentale la sensibilità trasformata di cui parlavo:
è un umanista, un femminista e un marxista. Ha abbastanza dello
scienziato da essere enormemente accurato sul vero Marte e
abbastanza dello scrittore per essere sorprendentemente fedele al
panorama. E' grande coi personaggi, ma ormai moltissimo scrittori
di SF oggigiorno sanno creare personaggi. Robinson è il nostro
W.H. Hudson che sa rendere vivi panorami esotici. Amare questo
libro significa amare Marte. Penso (spero) che risvegli
moltissimi dormienti nella SF e che li faccia mettere tutti al
lavoro.
Per questo mi sento
incoraggiato. Al massimo della mia speranza penso che in queste
prime rondini si veda una nuova primavra, e che l'infrastruttura
tecnologica e immaginativa che abbiamo lasciato cadere quasi in
rovina sia salvata e ricostruita, e che potremo avere una
stazione spaziale, un osservatorio ottico sulla Luna, uno shuttle
che funzioni e che sia veramente riutilizzabile, i viaggi di
robot verso i pianeti esterni e verso quelli interni, e che Marte
riesca a far sì che tutto ciò accada.
Sono d'accordo con Michael
Collins, il miglior scrittore che sia mai andato sulla Luna, il
Francis Parkman delle pianure lunari, che Marte si tirerà tutto
nella propria scia. Che un passo gigantesco stimolerà tutti gli
altri più piccoli. Di fatto, mi aspetto pienamente che accada. E
durante la mia esistenza. Spererei che non sia un avvenimento
esclusivamente americano, che abbiamo armai superato questo
livello.
Noi scrittori di
fantascienza non possiamo farlo accadere, ma siamo una parte
legittima del sogno. Penso di poter dire, guardando alla nuova
massa di libri su Marte, che stiamo iniziando a venir fuori dalle
Amarezze da Post-Apollo. Abbiamo imparato qualche lezione e siamo
impegnati in un nuovo genere di letteratura, più inclusiva, più
intelligente, più sofisticata ma ancora visionaria. E ancora
rivolta verso l'alto.
Verso le Stelle.
© Terry Bisson
tit. orig. SF
and the Post-Apollo Blues
tr. it. Santoni Danilo
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